diario dei giorni difficili .52
«Tu lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco e non ce la fai più. E d’un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno – uno sguardo umano – ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice».
Andrej Tarkovskij Andrej Rublëv
Leggendo le parole di Andrej Tarkovskj mi è venuto alla memoria quanto scritto da Elisabetta Veronese in un “Diario dei giorni difficili”: “Di me i pazienti non vedono che gli occhi, dietro la visiera, e mi chiedo se possano bastare per trasmettere quell’umanità che profuma di speranza.”
Un’infermiera, travolta dal carico di lavoro e costretta ad abituarsi ai veloci ritmi imposti dalla drammatica situazione presente, interroga lo sforzo compiuto, chiedendosi se davvero sia sufficiente uno sguardo rubato per far sentire un uomo vivo. Cosa meglio può farci sentire vivi se non il contatto con l’altro, un contatto profondamente umano che si radica nel bisogno dell’uomo? Ma, è sufficiente uno sguardo per trasmettere quest’umanità? Un volto appena accennato, nascosto dietro la mascherina?
Il volto in questi ultimi mesi cupi, ricchi di dubbi e incertezze, è divenuto punto di riferimento nelle mie giornate. La mattina mi collego alle lezioni online spesso perché spinta dal solo desiderio di vedere i miei compagni, amici, e i miei professori, adulti che cercano di accompagnarmi anche in questi giorni drammaticamente e fastidiosamente strani. Così nasce la modalità attraverso la quale è stato ed è possibile portare la scuola nelle nostre case, o meglio, rendere la scuola parte delle nostre case. Mi sveglio la mattina ben consapevole di non andare ad ascoltare solamente una lezione di latino, storia, matematica; ma di partecipare a un percorso il cui scopo è quello di rendere la difficoltà di questi giorni un’esperienza comunitaria, che pretende di essere guardata e vissuta con serietà. Quel click sul tasto della fotocamera alle 8.30 del mattino mi richiama ad affrontare il giorno con consapevolezza: mi richiama al senso delle cose. Sono io a scegliere di premere quel pulsante o meno, così come sono io a scegliere di vivere la giornata che mi è stata data o di lasciare che il tempo trascorra fino a giorni migliori. La scuola mi ha insegnato prima di tutto ad affrontare le circostanze presenti: a vivere il tempo e a dargli un significato; non limitandomi a riempirlo. Ecco dunque che l’esperienza scolastica vissuta in questo momento, per quanto riduttiva, costituisce l’unico mezzo attraverso il quale mi è permesso di restare in contatto con coloro che condividono e mi accompagnano in un percorso di maturazione. La più grande novità di questa strana quotidianità è la riscoperta del bisogno di un volto, prima scontato, ora prezioso. Un bisogno che si estende al sempre, all’infinito. Ho bisogno di ricercare sempre questo sguardo nei momenti di sconforto, ed è così che è nato il progetto con alcuni compagni di studiare anche il pomeriggio in videochiamata. Alzare lo sguardo dal libro e vedere il volto di un amico che assieme a me tenta di riporre la sua concentrazione nello studio anche quando la voglia viene a mancare, è straordinariamente bello. La bellezza è lo sguardo dell’umano. Un’umanità che spacca i vetri dello schermo e rompe le serrature delle nostre case ormai chiuse da parecchio tempo. Lo sguardo è l’unica speranza di umanità che penetra nel mio quotidiano e mi incoraggia ad affrontarlo coscientemente. Mentre scrivo, mi sorge una domanda: cos’è davvero lo sguardo? Esso è talmente importante da non poter essere considerato esclusivamente come la somma degli elementi di cui è costituito. Lo sguardo non è l’insieme di sopracciglia, occhi, naso, bocca; esso è per me riflesso di Bellezza e Bontà. Lo sguardo prescinde dalla materialità di cui apparentemente risulta composto e tende a quel mistero di cui inevitabilmente è animato.
I miei genitori lavorano entrambi in ambiente sanitario, motivo per cui da quando è scoppiata la pandemia sono stati costretti a prendere le adeguate precauzioni anche in casa. La quotidianità è stata travolta in modo brusco e repentino. Tutti i cambiamenti messi in atto hanno contribuito a rendermi consapevole della preziosità della famiglia, che in questo periodo più che mai non è scontata. Il rapporto con i miei genitori si limita a sguardi di sotto una mascherina: sguardi stanchi e frettolosi, però sufficienti a farmi percepire la loro vicinanza, il loro affetto. Lo sguardo mi si palesa come espressione di Presenza, di Bene e di Salvezza.
Una Salvezza di cui parlano le poesie di Cavalcanti e Guinizzelli che descrivono la donna come rappresentante dello sguardo amorevole di Dio sulla terra in grado di ingentilire e raffinare l’animo del poeta.
“Splende ‘n la ‘ntelligenzia del cielo/ Deo criator più che nostr’occhi ‘l sole:/ ella intende suo fattor oltra ‘l cielo,/ e ‘l ciel volgiando, a Lui obedire tole;/ e con’segue, al primero, /del giusto Deo beato compimento,/ così dar dovria, al vero,/ la bella donna, poi che gli occhi splende/ del suo gentil, talento/ che mai di lei obedir non si disprende./ Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,/ siando l’alma mia a lui davanti./ «Lo ciel passasti e ‘nfin a Me venisti/ e desti in vano amor Me per semblianti;/ ch’a Me conven le laude/ e a la reina del regnarne degno,/ per cui cessa onne fraude»./ Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza/ che fosse del Tuo regno;/ non me fu fallo, s’in lei posi amanza».” (Al cor gentil rempaira sempre amore, Guido Guinizzelli)
La scena viene spostata all’ordine divino, come manifestato dalla numerosa presenza di elementi celesti quali il cielo, le stelle, il sole. La donna diviene scala per raggiungere Dio. Anche la Commedia dantesca si svolge sull’immagine di un cammino ascensionale che, guidato dalla donna, muove verso il Cielo. Lo sguardo e il saluto della donna amata sono per Dante Salvezza e unico tramite tra l’uomo e Dio.
“Lucevan li occhi suoi più che la stella;/ e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella…” (Divina Commedia, Inferno, Canto II vv.55-57)
“O donna di virtù sola per cui/ l’umana spezie eccede ogne contento/ di quel ciel c’ha minor li cerchi sui…” (Divina Commedia, Inferno, Canto II vv.76-78)
“Io son fatta da Dio, sua mercè, tale,/ che la vostra miseria non mi tange,/ né fiamma d’esto ‘ncendio non m’assale…” (Divina Commedia, Inferno, Canto II vv.91-93)
Il canto II dell’Inferno si apre con l’incertezza di Dante circa l’enormità dell’impresa e la sua inadeguatezza: chi è lui per presumere di visitare l’aldilà da vivo? Coloro che oltre a lui ebbero il privilegio di addentrarsi nel regno dei morti furono Enea e San Paolo, a cui Dante riconosce grande virtù. L’azione dunque si arresta e il canto viene occupato dalla dichiarazione da parte di Virgilio della macchina provvidenziale che si cela dietro il cammino di Dante stesso. Il poeta latino rievoca la sua investitura quale guida del cammino dantesco, secondo quanto stabilito durante l’incontro nel Limbo con Beatrice. Ella è l’ultima di una catena di celesti donne protettrici di Dante, intervenute in suo aiuto. Tutto ha origine dalla Vergine Maria che ha interceduto a favore di Dante presso Dio e che ha chiamato a sé Santa Lucia. La vergine martire informò poi Beatrice della volontà divina. Senza l’ausilio di Beatrice è impossibile per Dante raggiungere la Salvezza eterna; infatti Virgilio lo condurrà solo fino a un certo punto del suo cammino, per scomparire al momento dell’arrivo della donna, descritta secondo i tipici attributi della donna-angelo dello Stilnovo. Ella, in tutto il suo splendore e nella sua superiorità, non si sottrae al bisogno dell’uomo, ma anzi, pronta a soccorrerlo, si abbassa alla sua miseria, con sguardo amorevole e occhi lucenti, riflesso dell’amore di Dio. Il richiamo di Virgilio e, soprattutto, il ricordo del volto di Beatrice hanno su Dante un effetto immediato, così che il poeta prega il suo maestro di proseguire il viaggio, simile a un fiore che il freddo notturno ha chiuso e che si riapre alle prime luci del mattino.
La Commedia è il racconto di uno sguardo che accetta un cambiamento, che assume la propria responsabilità e decide di affidarsi alla guida del Cielo per ritrovare la strada che appare smarrita: l’itinerario di Dante si presenta, quindi, come il viaggio dello sguardo di ogni uomo. Nel regno infernale si ritrova lo sguardo di chi fa esperienza del buio dei propri errori, della difficoltà quotidiana a cui spesso la vita sottopone, mettendo a nudo fragilità e limiti. Il cammino però porta a un’evoluzione di questo sguardo, che, superando la difficoltà, potrà saggiare, anche se per un brevissimo ma straordinario istante, la grandezza di Dio.
In questi giorni ho riscontrato una forte corrispondenza tra quanto per me prezioso, lo sguardo, e l’oggetto del poema di Dante, rendendolo a me ancora più caro.
Il volto di un uomo, la presenza di una compagnia, la consapevolezza di un umano permette di volgere il proprio sguardo, ferito dalle difficoltà, verso la speranza di una Salvezza.
Marta Boffi
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