diario dei giorni difficili .56
La vita, le cose e il tempo come le vede Verga. La Novella Lacrymae rerum
Lo spazio ospita, è una tirannia tollerante. Esso è l’ospite che concede a ombre premurose di giostrarsi tra l’alternarsi illuminato di aria e carta da parati. Lo spazio si incarna qui in una casa dalle tende meschine; si incarna perché viene abitato, paradossalmente. La sua vita segreta, messa a nudo da un lume in veglia, viene spiata o, forse, le viene riconosciuta la giusta riverenza. Tra quattro mura si muove sempre un’anima e il suo spontaneo dimenarsi infonde, forse per un inspiegabile processo d’empatia, vita nelle cose, regala un orizzonte al tempo. Pare che l’uomo sia lungo disteso sulle cose, non per soffocarle ma per coglierne la concretezza, la nuda materialità e per raccontarla, ora dopo ora, sera dopo tramonto, primavera dopo silenzi, dagli stipiti immoti di una finestra. Ogni ombra che ha abitato questo spazio ha lasciato una traccia, un’orma silenziosa, un solco insondabile. E, sul finire della novella, ognuna di queste tracce, incastonata o forse custodita tra le pareti di quella casa, viene privata del suo spazio, del grembo di calce che ha chiamato, pur non potendo esprimersi a parole, madre. Ogni colpo disinteressato di un muratore spoglia quello spazio, ogni colpo scandisce il tempo. Il dissolversi graduale di questa casa porta alla luce continui riferimenti allusivi alle ombre e allo sbatter d’usci che l’hanno conosciuta; porta tutto il peso del divenire, dell’attesa, dell’estremo attimo. Nel silenzio del giorno, tra le percosse della demolizione, riecheggia tra le pareti il solenne canto d’un usignolo che, sere e sere prima, cantava alla luna, dimenticandosi della sua prigione, trascendendo lo spazio ma scandendo l’incedere del tempo.
È la vita, la vita delle ombre, la vita che le ombre infondono nelle cose, la vita che le cose sospirano alle ombre; è la vita nel suo tempo, la vita nel tempo, la vita del tempo. Terra, terra senza stilizzazione. Materia senza idealizzazioni. Ombre di carne, carne e voragine. È un’estrema fedeltà al quotidiano nella sua irriverente imprevedibilità; un’attenzione, un non-richiesto ma desiderato riconoscimento dell’estrema concretezza dello spazio e delle ombre pesanti che lo abitano nell’incedere del tempo. È storia.
E questa sincrasi inspiegabile, questa sintesi analitica, di spazio, tempo e soggetto come materia e voragine credo trovi la sua magistrale rappresentazione ne ‘La vecchia serva venne a pigliare i garofani’.
Garofani che morivano d’incuria: carne. Garofani portati sotto lo scialle della vecchia come una reliquia; voragine. Garofani testimoni della storia, custodi del dolore dell’estremo istante, memori dell’attesa, uscieri per gli amanti, spettatori di confische, recettori di moti interiori e percosse di demolizioni. Tutta questa vita li ha resi reliquia. Ma essi restano pur sempre garofani, senza labbra e corde vocali; non sanno emettere suono, ma sono. Quindi chi non urla da chi viene sentito? Sta tutto qui. Essi, come le cose, parlano; parlano per immagini, per intuizione, per nostalgia. Comunicano con una rapidità disumana, senza fraintendimenti, senza richieste di chiarimenti. Ma il loro parlare non è altro che la proiezione di un’ineffabile porzione di essere umano incastrato nella loro materia. E questa dimensione ineffabile li abita, in maniera estremamente concreta, finché un altro uomo non la raccoglie, ricostruendo, ricordando, facendosi raccontare: traduzione eterogenea.
Le cose non sono altro che materia colma di spirito, infuso da una vita che, fortemente connotata dalla sua temporalità, comunica un ingestibile aspetto atemporale. Le cose allora piangono, riflettono le inclinazioni delle anime vibranti che si muovono tra la loro materia: empatia eterogenea, paradossale miscela, mischiarsi di terre straniere.
È una contaminazione inspiegabile, fertile contaminazione: lo spazio, le cose ospitano la vita in un tempo finito, per proiettarla poi in una dimensione incommensurabile. Date alla terra ciò che è della terra.
Martina Pagani
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