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Un’implicita istigazione al suicidio

di Adriano Pessina

Docente di Filosofia morale,
facoltà di Scienze della formazione,
campus di Milano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

30 settembre 2019

La recente sentenza della Corte Costituzionale, emessa il 25 settembre scorso e che legittima il suicidio assistito – cioè l’aiutare un altro a morire –, rappresenta un vulnus gravissimo, forse irreparabile, portato tanto alle consolidate procedure istituzionali e legislative dello Stato italiano quanto a un’umana e cristiana cultura della cura.

In sostanza, ordinando al Parlamento di legiferare conformemente, la Corte dichiara che per lo Stato italiano il dare e darsi la morte, pur “a determinate condizioni”, il toglier(-si) la vita valgono altrettanto quanto il dare la vita, il fare ogni sforzo per mantenere in vita anche i malati lungodegenti e, più in generale, il curare e assistere medicalmente i sofferenti. Si apre così uno scenario più che inquietante: lugubre, tetro. Che ci riguarda tutti.

Nel panorama dei commenti finora circolati, assumiamo e segnaliamo per chiarezza e precisione l’articolato e competente giudizio di Adriano Pessina, professore ordinario di Bioetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il giudizio è ripreso dal sito web della stessa Università Cattolica (vedi qui).

Un’implicita istigazione al suicidio

di Adriano Pessina

La Corte costituzionale, con la sua sentenza, introduce di fatto la pratica del suicidio assistito e ne indica anche i percorsi di legittimità. Bisogna avere il coraggio di dirlo con estrema chiarezza: ogni legittimazione legale e culturale del suicidio assistito è un’implicita e sottile istigazione al suicidio, perché insinua l’idea che in fondo sia meglio morire che vivere in certe condizioni, avalla le pulsioni di morte delle persone più fragili ed esposte, non contrasta la percezione di molti malati di sentirsi “inutili” e di essere un “peso” economico, sociale, psicologico, che grava su chi li assiste. Si deve sottolineare che la Corte subordina la non punibilità dell’aiuto al suicidio a quanto già stabilito dalla legge sul Consenso informato e le direttive anticipate e rimanda a presunti Comitati etici, i nuovi tribunali del popolo che dovrebbero decidere se ci sono le condizioni perché una persona possa essere aiutata a suicidarsi o no.

Un’impostazione che evidenzia il tentativo di equiparare il rifiuto dei trattamenti al suicidio assistito, creando, in una materia così delicata e complessa, una confusione abissale. La legge sul consenso informato e le direttive anticipate non prevedono nessun avallo ad atti suicidari o eutanasici. La Corte, del resto, indica criteri ampiamente discutibili, generici e clinicamente equivoci per non punire l’aiuto al suicidio. Infatti, fa riferimento a situazioni in cui il paziente “è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili”. Ma chi ritenesse sproporzionato quel sostegno potrebbe già ora rinunciarvi, senza ricorrere al suicidio assistito. In caso di rinuncia ai trattamenti di sostegno vitale, ciò che conduce alla morte il paziente non è né l’atto del suicida stesso né il farmaco che assume, ma la condizione patologica che risulta incompatibile con la vita, una volta venuto meno il sostegno vitale stesso.

Questi criteri sono del resto persino inapplicabili al caso di Dj Fabo, che non era tenuto in vita da un sostegno vitale, non era affetto da una patologia irreversibile perché la sua condizione clinica era l’esito di un incidente stradale, mentre sicuramente riteneva insopportabile la propria situazione. Ed è proprio questo elemento soggettivo che non potrà mai essere valutato. Legittimare il suicidio assistito significa trasformare un fatto – la volontà di morire – in un diritto che impone a qualcuno di favorirlo, pena l’impossibilità del richiedente di veder soddisfatta la propria volontà. Permettere il suicidio assistito significa introdurre un implicito diritto di morire che, al di là della sua intrinseca contraddittorietà, confligge apertamente con il caposaldo di ogni diritto, che è appunto il diritto alla vita, che è la fonte del diritto alla cura e all’assistenza. In una materia così complessa, delicata e piena di sfumature, esistenziali, morali e culturali, ci si aspettava una risposta capace di rilanciare e potenziare il sostegno clinico, psicologico, economico e morale delle persone sofferenti; invece, siamo stati tutti condannati ad accettare una morte concordata. Siamo tutti un po’ meno liberi perché la morte invocata, praticata e agevolata non è mai sinonimo di libertà.

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