ARTICOLI / proposte di lettura

su "fine vita" ed "eutanasia"

Siamo tutti colpiti dalle notizie che si susseguono sulla controversa materia del “fine vita” e dell'”eutanasia”, a partire dalla tragica vicenda di Dj Fabo – notizie convulse che richiedono un uso pacato della ragione e l’attenta considerazione di tutti i fattori in gioco.

Fra gl’interventi pubblicati in questi giorni, ho trascelto i due qui allegati – pubblicati oggi stesso – che offro a vantaggio della riflessione di tutti. Di essi condivido in toto, oltre le tesi e la solida argomentazione, soprattutto il tenace incardinamento al dato dell’esperienza umana illuminata dalla ragione.

Luca Montecchi
Rettore

Giovanni MADDALENA, “Il Foglio”, 1° marzo 2017.

Giovanni MADDALENA, Quell’equilibrio tra indisponibilità della vita e autodeterminazione che impedisce di legiferare sulla vita, “Il Foglio”, 1° marzo 2017.

LA NOSTRA ESISTENZA È UN OGGETTO STRANO: È NOSTRA E NON È NOSTRA, NON LA DECIDIAMO ALL’INIZIO ED È FRUTTO DI LEGAMI. MEGLIO NESSUNA LEGGE DI UNA FATTA SU CASI PARTICOLARI

Oliver Wendell Holmes (1841-1935), uno dei più importanti e longevi giudici che la Corte suprema statunitense abbia avuto, era solito dire che occorre stare attenti a non legiferare mai sulla base di casi estremi (hard cases make bad law). Il giudice si muoveva dalla consolidata esperienza che le leggi buone, come le leggi scientifiche buone, devono coprire delle regolarità. Invece, puntuale, l’informazione cerca di trasformare e strumentalizzare casi estremi – come quello di Dj Fabo – per forzare la mano dei legislatori. Non ce l’abbiamo con nessuno: è mestiere di chi vuole certe leggi usare l’informazione, ed è mestiere dell’informazione cercare fatti nuovi e facilmente apprezzabili dal pubblico. Basta esserne consapevoli. Soprattutto, basta che ne siano consapevoli i legislatori, che altrimenti finiscono per fare pessime leggi lontane dal senso comune e dalla vita comune.

Uscendo dunque dal caso specifico, con tutte le sue peculiarità e con l’immenso carico di dolore che queste ultime comportano, occorre provare a generalizzare. Quando lo si fa, il problema dell’eutanasia e più in generale del fine vita dimostra la sua immensa difficoltà. In esso si scontrano, infatti, il principio dell’indisponibilità della vita e quello dell’autodeterminazione.

A guardare i fenomeni senza pregiudizi, del resto, la vita è un oggetto strano: per quanto sia propria, il suo possessore non la può decidere almeno nel suo momento iniziale. Così essa è nostra e non è nostra: per questo avvertiamo con fastidio la mercificazione della vita, degli organi, dei corpi, anche quando si è perfettamente consenzienti. Eppure in un altro senso, dopo la nascita e l’infanzia possiamo decidere e deciderne: e anche questa è un’evidenza a cui fanno appello i difensori dell’eutanasia. Senza entrare nelle inevitabili e profonde convinzioni opposte che qui nascono e si affermano, vorrei solo notare in questo articolo che, cercando di mantenere un’osservazione disincantata, tale autodeterminazione non si può in ogni caso concepire come assoluta. La vita risulta piena di legami di ogni tipo e la libera autodeterminazione non può prescindere da essi. Siamo legati gli uni agli altri da fili alle volte invisibili ma tenaci, e la scelta di ciascuno importa a tutti e ha un impatto sulla vita di tutti. Per questo, al di là delle convinzioni, il legiferare su questa materia deve tenere in conto almeno che la pura decisione individualista non corrisponde ai fatti. La nostra libertà non è solo scelta ma anche risposta ai molti o ai pochi che abbiamo incontrato nella vita, è anche un’accettazione e non solo un allontanamento di autorità esterne o estranee. Così, anche nel dolore tali legami, lontani e vicini nel tempo e nello spazio, possono influire ed essere influenzati.

Mi ha sempre colpito il fatto che, con la concezione individualista e autodeterminista della libertà occidentale, si sia discusso prima di aborto che di eutanasia, quando la seconda sembra avere argomenti meno problematici se si parte da una pura libertà di scelta. Tuttavia, forse, si è dovuto aspettare che l’individualismo e la solitudine sociale crescessero al punto tale da considerare come dubbia l’utilità sociale di una vita, che prima non si metteva in discussione proprio perché in tanti anni ogni vita ha certamente accumulato molti più legami di quella di un feto. Forse la traccia di una concezione di libertà come legame e adesione alla realtà e al bene sociale è più profonda di quanto non si pensi e spero che i legislatori ne tengano conto.

A tale proposito, visto che ora, non casualmente, se ne discuterà in Parlamento, penso che sia difficile andare oltre l’equilibrio attuale tra il principio dell’indisponibilità della vita e quello dell’autodeterminazione. Le situazioni singolari sono così dolorose e così complesse che temo che la migliore idea sia quella di legiferare il meno possibile o non legiferare affatto. Le definizioni inevitabili di una legge faranno violenza all’uno o all’altro principio e all’una o all’altra situazione.

Dato l’orientamento generale, già previsto dalla nostra Costituzione, forse conviene rimettersi al senso comune di parenti, amici, medici e giudici (nell’ordine di apparizione). E se è vero che ci saranno degli errori, non saranno mai così gravi come quelli di una cattiva legge. La vaghezza, spesso deprecata, può essere una via d’uscita di un “caso per caso” che salva i principi senza mortificare le situazioni o appiattire ogni significato e ogni convinzione.

Rodolfo CASADEI, “Tempi”, 1° marzo 2017

Rodolfo CASADEI, Se sto male, tenetemi alla larga da Cappato, “Tempi”, 1° marzo 2017

Mentre si dava la morte, Dj Fabo ci ha lasciato parole che fanno male. Ha lasciato scritto che è andato in Svizzera con l’intenzione di fare quello che poi ha fatto «senza l’aiuto del mio Stato». Ha puntato un dito accusatore contro lo Stato che non lo ha aiutato a suicidarsi in Italia. Ora, come ho sentito una volta dire a Romano Prodi, che ripeteva le parole di Piero Calamandrei, «lo Stato siamo noi». In realtà, fra lo Stato e noi non può esserci coincidenza: lo Stato è uno strumento della società, uno strumento che rischia di sfuggire di mano come tanti, è un’istituzione creata dalla società e che dunque la società ha facoltà di revocare. Ma in termini retorici prendiamo per buone le parole di Piero Calamandrei e Romano Prodi.

Siccome retoricamente parlando lo Stato siamo noi, lo Stato sono io, nessuno può pretendere che io approvi l’uccisione legale di un innocente, sia sotto la forma del suicidio assistito che sotto quella dell’eutanasia. Chi chiede allo Stato di godere della piena libertà di uccidersi e dell’assistenza pubblica per farlo, sta chiedendo a me di partecipare alla sua uccisione, di assumermi la responsabilità della sua morte violenta. «Ma non sei tu che uccidi», dirà qualcuno. E invece sì, indirettamente sono io, se dico sì all’eutanasia o comunque non mi oppongo alla sua istituzione. L’obiezione di coscienza non comincia solo nel momento in cui una legge controversa viene approvata e introdotta dalle istituzioni, comincia, soprattutto nei paesi a democrazia partecipativa, quando si discute l’introduzione di quella legge. Chi si astiene o lascia fare nel momento in cui lo Stato del suo paese introduce una legge che sancisce la pena di morte come punizione per certi reati, la legittimità della pratica dell’aborto su richiesta, il sostegno pubblico al suicidio o all’eutanasia, è responsabile tanto quanto chi appoggia attivamente queste scelte giuridiche. È personalmente responsabile, indirettamente, di soppressioni di vite umane per iniziativa umana. Perché, appunto, lo Stato siamo noi: siamo una comunità, siamo solidali, siamo responsabili gli uni degli altri.

Dire “ognuno faccia come crede” è venir meno a questa solidarietà. «Ma quella dell’eutanasia o del suicidio assistito è una richiesta che viene da una persona che manifesta un bisogno, ti implora di permettergli di morire perché non ce la fa più a vivere». È vero. Diversamente dal feto, sul quale si interviene con l’aborto senza avere sentito il suo parere, o dal condannato a morte, il cui parere è irrilevante perché la pena che subisce è la sanzione di un suo comportamento, la persona sofferente in procinto di essere soppressa formula lei stessa la richiesta della propria morte. Questo cambia qualcosa? Ai miei occhi no, per due distinte ragioni.

La prima è di ordine pratico: è difficile valutare la volontarietà e irreversibilità di una richiesta di morte. Una persona che soffre ha molti momenti di sconforto, durante i quali può chiedere di farla finita, ma se qualcuno lo conforta non pietisticamente, ma coinvolgendosi personalmente con la sua difficoltà, cioè facendogli percepire che la sua vita vale ancora, che ha ancora uno scopo e un valore per chi gli sta attorno, il sofferente torna a scegliere la vita. Se fossi un malato terminale o se fossi afflitto da qualche grave invalidità permanente non vorrei mai essere avvicinato da una persona come Marco Cappato o altri radicali dello stesso genere, perché so che approfitterebbero della mia debolezza per orientare la mia indebolita volontà verso la scelta che porta acqua al mulino della loro ideologia (quella dell’individualismo e della cosiddetta autodeterminazione).

La seconda ragione è morale: la vita non ce la siamo data noi, perciò non abbiamo il diritto di togliercela. Possiamo farlo, possiamo suicidarci o trovare qualcuno disposto a sopprimerci, ma queste azioni non possono essere presentate come soddisfazione di un diritto, non possono presentarsi come moralmente legittime. Che la vita non ce la siamo data da soli non è la mia opinione, il mio punto di vista: è un dato di fatto inconfutabile. Che ha delle conseguenze altrettanto inconfutabili, la prima delle quali è che il senso della vita non lo decidiamo noi, ma si trova là dove ha avuto origine la mia, la tua vita e quella di tutti. Perciò, la seconda frase di dj Fabo, che mi ferisce come una lama piantata nell’anima, è quella che dice: «Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita ora». La vita e la morte, la felicità e la sofferenza, un senso ce l’hanno, anche se noi non lo riconosciamo, anche se non lo troviamo. Quel senso ci precede e ci sovrasta, è più grande di noi, di tutto ciò che pensiamo, facciamo, sentiamo. Da credente ho la certezza di fede che quel senso lo incontrerò pienamente e definitivamente dopo la morte, nel luogo dell’eterno riposo. Ma anche chi non crede non è esentato dal riconoscere che non siamo noi a dare o a negare un senso alle cose: puoi non credere in Dio, ma non puoi pretendere di essere Dio tu. Credenti e non credenti, non possiamo non vivere la vita come un compito, e portare le sofferenze della vita, tutte, è parte di quel compito. È la parte più difficile e importante.

Con questo non voglio dire certo che chi soffre debba abbracciare l’accanimento terapeutico. Nessuno è obbligato a curarsi, ma se uno si rivolge a un medico non potrà pretendere che quello venga meno alla sua deontologia, che gli impone di curare il paziente in scienza e coscienza. Trovo perfettamente legittimo che un diabetico rifiuti l’amputazione di un arto cancrenoso, o che un malato terminale rifiuti l’alimentazione nasogastrica. Non riesco però ad accettare che questo possa essere determinato da una Dat, da una Dichiarazione anticipata di trattamento: la volontà deve essere espressa al momento dell’evento, quando si fa esperienza della situazione. E se il paziente non può esprimersi? Evidentemente si dovrà privilegiare il trattamento che permette di mantenerlo in vita. La scelta opposta farebbe sospettare un giudizio di fondo che non è condivisibile: che in certe condizioni la vita non merita più di essere vissuta, che l’intangibilità della vita non è gerarchicamente superiore ad altri valori e ad altre considerazioni.

E qui non si può non mettere in guardia l’opinione pubblica rispetto alle circostanze storiche che sembrano spianare la strada all’introduzione dell’eutanasia nei sistemi legali. Se ci guardiamo attorno, vediamo che l’eutanasia e il suicidio assistito legali sono fenomeni che riguardano quasi esclusivamente i paesi industrializzati, e in particolare gli stati dell’Unione Europea. Cioè paesi dove i livelli attuali di welfare stanno diventando insostenibili a causa dell’invecchiamento della popolazione. Le proiezioni dicono che presto non avremo le risorse per garantire a tutti assistenza sanitaria e trattamenti pensionistici adeguati. Aspettiamoci una propaganda sempre più capillare e pervasiva a favore della “buona morte” da parte dei grandi media, che sono parte integrante del sistema: le persone saranno condizionate a considerare una vita afflitta dalle limitazioni che una malattia grave impone come una vita indegna di essere vissuta, così si ridurranno sensibilmente i costi del welfare state e si potrà continuare a erogarlo a un numero minore di titolari. Così conviene a chi tiene i cordoni della borsa pubblica.

Concludendo, le parole di dj Fabo mi fanno sentire in colpa. Non perché non ho provveduto a facilitare il suo suicidio, ma perché la sua tragedia mi mette davanti ai miei peccati di omissione, a tutte le volte in cui non sono stato e non sono capace di amare il prossimo, di far sentire importante e insostituibile per me quella particolare persona che vive difficoltà, problemi, drammi. È la mancanza di amore che uccide, attraverso le innumerevoli forme di autodistruzione e di anoressia che vediamo intorno a noi. Non l’amore sentimentalisticamente inteso, ma quello riconoscibile per il fatto che si dedicano tempo ed energie a una persona, che si considera la pienezza di vita di quella persona come qualcosa d’importante per la nostra stessa vita.