diario dei giorni difficili .24

“Perché ho sempre avuto tutto e amato ciò che mi è mancato”, Ultimo. Alla lettura di questa citazione, si potrà forse avere l’impressione che sia stata scritta per sottolineare la nuova consapevolezza che molti di noi si trovano ad affrontare in questo periodo: l’ammissione di una vita da persone viziate, forse non per colpa di qualcuno, semplicemente per un’abitudine inconsapevole a dare per scontati numerosi aspetti dovuti all’agiata società in cui viviamo. Sono nata in una realtà che fortunatamente mi ha sempre garantito una vita ricca di possibilità. L’istruzione, l’andare a scuola, faceva parte della mia quotidianità, e spesso mi capitava di desiderare di essere da un’altra parte. Tutte le mattine mi svegliavo alle cinque e mezza, rotolavo giù dal letto e macchinosamente, attraverso operazioni ormai sedimentate perché caratterizzanti le mie giornate, uscivo prima che i raggi assonnati del sole facessero capolino da dietro le case, sulle strade dove la vita era già piena di frenesia. Su e giù dai mezzi pubblici, poi un tratto a passo svelto ed infine ecco che arrivavo a scuola. Raccontare tutto ciò, coi tempi verbali al passato, mi conduce a una realtà estremamente lontana, nella quale non odiavo la scuola, ma di sicuro non trovavo minimamente traccia di positività in questi risvegli traumatici che si concludevano con sei ore seduta in classe ad incanalare nozioni ininterrottamente; per poi essere catapultata di nuovo in quell’ambiente dove il tempo sembra andare di fretta e io devo studiare, andare al maneggio, aiutare in casa, senza mai potermi fermare per il rischio di perdere un treno. Certo, la scuola stessa mi piaceva, fin da piccola amavo studiare, volevo e tutt’ora desidero diventare una di quelle donne indipendenti che non hanno bisogno di essere difese da nessuno perché incapaci di affrontare determinati discorsi. Essere invece una di coloro che possiedono una capacità di linguaggio tale da permettermi di sostenere qualsiasi tipo di conversazione. Ma, soprattutto, ho sempre visto nei libri un rifugio sicuro in cui potermi isolare, dove non si è mai soli perché circondati da personaggi e autori vicini a ogni mio stato d’animo. La solitudine mi ha sempre spaventata, e con “solitudine” non intendo i piacevoli e a volte necessari momenti passati a raccogliere i miei pensieri avvolta da un assoluto silenzio; mi riferisco alla paura di non poter contare su nessuno che non sia la mia persona.

Sono ormai sei settimane che non vado a scuola, non ho contatti diretti con persone che non siano della mia famiglia. Sicuramente, attraverso la tecnologia ci è permessa la comunicazione con persone che non fanno parte del nostro nucleo famigliare, e il poter sentire e vedere i miei cari, almeno da dietro uno schermo, mi rincuora, ma purtroppo non basta a colmare questo mio senso di solitudine. A casa, durante molte delle mie lunghe giornate, mi capita di pensare come questa situazione di isolamento forzato mi costringa ad ammettere cosa è davvero superfluo della mia vita: alcune di queste cose sono abbastanza banali e superficiali, come per esempio uscire a mangiare o fare shopping; altre però, più che azioni o aspetti materiali, sono relazioni umane. Quali persone sono davvero indispensabili per sentirmi bene? Quanti tra i miei rapporti sociali sono irrilevanti o addirittura dannosi?

Durante certe ore di lezione ci è capitato di riflettere su che cosa per noi rappresenti l’essenziale; e subito la mia mente mi pone di fronte i miei genitori e i miei fratelli. Abbiamo parlato di quanto sia importante poter contare sull’incondizionata presenza di qualcuno al nostro fianco, che sia quella degli amici, della famiglia o anche della fede in Dio. A proposito di fede, devo ammettere che mi sta davvero aiutando in questo difficile periodo. Per la verità, non ho mai fatto troppo affidamento sulla religione, anzi, soprattutto negli ultimi anni non mi ci soffermavo minimamente; non perché non ci credessi o per disinteresse, semplicemente non era uno dei miei pensieri prioritari, nonostante sia cresciuta tra le mura di una famiglia fondata sui valori della cristianità. Le lezioni di Religione erano certamente momenti di riflessione, ma si interrompevano una volta suonata la campanella. Durante questa quarantena, invece, avendo modo di riflettere molto di più su ciò che mi succede durante il giorno, mi trovo a riavvolgere il filo del discorso affrontato in classe, facendomi coinvolgere sempre più personalmente. Per la prima volta mi è capitato di emozionarmi durante una di queste ore: stavamo guardando un video di un sacerdote, don Fabio, che è andato indirettamente a ripescare proprio quegli argomenti del mio passato che con tanto impegno avevo cercato di sotterrare, come se sapesse, come se stesse parlando a me. Credo che, se avessi ascoltato la sua voce forse cinque mesi fa, non mi avrebbe fatto lo stesso effetto; ora però sto vivendo una situazione che spesso mi riporta a quei cupi pensieri e sento una fortissima necessità di dovermi confrontare con degli amici, senza limitarmi ai legami di sangue, che comunque non reputo scontati. L’individuazione di reali amicizie rappresenta per me un punto cruciale per potersi sentire bene con la propria persona.

Agli occhi di qualcuno, il mio potrà sembrare un ragionamento di un’adolescente media che vede negli amici una fonte di ammirazione e un bisogno di accettazione in un gruppo, che riflette poi quella che è la società. Forse il giudizio di questi è fondato, forse hanno ragione a pensare che, invece, il primo requisito per sentirsi parte di qualcosa è appezzare noi stessi indipendentemente se gli altri lo fanno o meno. Ma cosa dipende da cosa? Ma è l’apprezzamento di sé stessi che dipende dall’accettazione da parte di altri. o l’apprezzamento da parte di altri dipende dall’accettazione di noi stessi? Sono questi i ragionamenti che mi attanagliano la mente praticamente da quando ho memoria. E poi c’è l’amore, che sicuramente racchiude l’amicizia, ma è un sentimento immensamente più ampio e pieno di sfaccettature. Esso ha sempre occupato le menti dell’uomo fin dall’antichità, tanto che molti personaggi illustri hanno dedicato la loro intera vita a comprendere questo inspiegabile e affascinante aspetto dell’emotività umana. Ovviamente alla veneranda età di sedici anni non mi reputo certo un’esperta, e tuttavia ne ho sempre avuto una forte concezione come l’unica emozione capace di farci vedere il bene nelle cose. Per amore si può anche fare del male, è vero, ma questo può essere dettato dalla paura di perdere persone care, timore che a volte ci porta a comportarci da egoisti.

Ecco, ho sempre avuto una bella visione del genere umano, ho sempre creduto che in ognuno di noi ci fosse del buono, ma delle volte questo mio punto di vista trema sotto l’impeto dell’egoismo. Stati che davanti ad intere Nazioni messe in ginocchio da un nemico invisibile e supplicanti aiuto se ne lavano le mani, per quella paura che causa i terremoti responsabili dei crolli della fiducia nell’umanità. Altrettanti Stati accorrono però in nostro soccorso, eserciti di operatori sanitari che combattono a rappresentare quel barlume di speranza che ci conduce alla certezza che prima o poi questa agonia finirà. Presto potremo tornare a scuola, al lavoro, vivremo ancora momenti insieme, potremo ridere, piangere, scherzare in compagnia di altre persone, potremo tornare a spintonarci in luoghi affollati in cerca di un posto a sedere, andare allo stadio, in discoteca, nei parchi, potremo salutarci battendo il cinque, presentarci stringendo la mano, pregare assieme, baciarci e abbracciarci. E tutto questo non sarà più dato per scontato.

Giorgia Carzaniga
18 aprile 2020

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