diario dei giorni difficili .14

Ave Verum Corpus in Re maggiore K 618

Wolfgang A. Mozart: Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791

L’esecuzione è della Symphonieorchester della Radio Bavarese, diretta da Leonard Bernstein nella settecentesca basilica di Waldsassen, in Germania, il 4 aprile 1990.

La reclusione cui tutta una nazione da settimane è condannata, in singolare (o provvidenziale?) coincidenza col tempo liturgico “forte” di Quaresima, costringe a rinunce ormai più che quaresimali. Costringe perfino al digiuno eucaristico: alla gente messa a dura prova – già e ancora…, soprattutto nei suoi soggetti (nel senso passivo del nome-aggettivo) deboli: malati, disabili, vecchi, bambini – per ragioni di “salute pubblica” non è concessa, è “sospesa”, la santa Comunione con la Messa: il culto divino non rientra fra i “servizi essenziali”. A questa gente oggi non è dato il pane del Cielo, quel panis angelorum sempre ardentemente agognato da san Francesco, mentre ai suoi tempi – il sec. xiii – assai di rado ci si comunicava, per lo più il giorno di Pasqua. Di quel pane, l’Ostia consacrata, quasi soltanto si cibò per otto anni santa Caterina da Siena; di quel pane per 50 anni visse e si nutrì esclusivamente la Serva di Dio Marthe Robin (la mistica francese fondatrice dell’opera dei Foyers de la Charité). Dal 1930, per una malattia dell’intero apparato digerente, non può più mangiare. Come riesce a vivere? L’Eucaristia diventa, nel senso letterale, il suo unico cibo. Non è la sostanza dell’ostia a nutrirla, poiché riceve la Comunione solo una volta la settimana. Spiega nel 1958 al filosofo Jean Guitton: “Mi nutro solo di questo. Mi inumidiscono la bocca ma non posso deglutire. L’ostia mi procura un’impressione fisica di nutrimento. Gesù, essendo tutto il mio corpo, è Lui che mi nutre. È come una Risurrezione”.

Disse san Paolo vi in un’omelia per il Corpus Domini, il 17 giugno 1965: “L’Eucaristia è istituita perché diventiamo fratelli; viene celebrata perché da estranei e indifferenti gli uni gli altri, diventiamo uniti, uguali e amici; è data perché, da massa apatica e fra sé divisa, se non avversaria, diventiamo un popolo che ha un cuore solo e un’anima sola”.

Queste settimane d’inedito sacrificio individuale e collettivo, che, a guardarsi attorno, fluttuano sul vuoto in mezzo a surrogati, dai proclami in tivù ai flash mob ai balconi, di speranza e a volontaristiche consolazioni; proviamo a sfruttarle, queste settimane, per ancor più meditare, e pregare come si sta facendo, sul mistero della Presenza reale di Cristo nell’Ostia consacrata, per aderire con più libertà e coscienza a Gesù Cristo stesso, per desiderarne e chiederne il sapore alle nostre giornate di digiuno. Per seminare nei cuori una speranza nuova dentro la solitudine diffusa (specie dei troppi vecchi che muoiono decimati, desolati) e l’intima precarietà dei nostri sforzi, per radunare un “volgo disperso” che possa tornare a chiamarsi “popolo”, veri amici e veri fratelli perché figli di un Padre che ci porta nelle braccia, nei visceri, del Suo doloroso, luminoso, Mistero. Proprio quel Mistero che l’Ave Verum Corpus rivela o cui, meglio, ci apre e c’introduce.

Continuiamo a fare scuola come prima, più di prima, per nutrire di senso questo tempo strano ma non maledetto. Perché ogni cosa creata, anche il tempo, è di Dio.

« Ave Verum Corpus natum
« Ave, o Vero Corpo, nato
de Maria Virgine,
da Maria Vergine,
Vere passum, immolatum
che veramente patì e fu immolato
in cruce pro homine.
sulla croce per l’uomo,

Cuius latus perforatum
e dal cui fianco trafitto
unda fluxit et sanguine,
fluirono acqua e sangue:
Esto nobis praegustatum
fa’ che noi di Te pregustiamo
in mortis examine.
sul punto di morte.

O Iesu dulcis, O Iesu pie, O Iesu, fili Mariae,
O Gesù dolce, o Gesù pietoso, o Gesù figlio di Maria
Miserere mei. Amen. »
Pietà di me. Amen. »

L’inno è ispirato e informato al dogma cattolico della presenza reale del corpo di Gesù Cristo nel sacramento dell’Eucarestia. Come ben si vede dalla rima in –átum ai versi dispari, e dalla medesima rima àtona (in –ine) dei versi pari, o anche dall’efficace ripetizione variata dei vocaboli verum / vere e infine dalla triplice invocazione O Iesu, il testo è una poesia eucaristica latina del sec. xiv, di autore ignoto, messa in musica da più compositori lungo i secoli (nel sec. xx dall’inglese, poco noto in Italia ma insigne, Edward Elgar) e soprattutto dal grande Salisburghese per l’occasione della solennità del Corpus Domini.

Da Wolfgang il pezzo fu dedicato all’amico Anton Stoll, Kapellmeister della chiesa cattolica parrocchiale di Baden (in Austria, a poca distanza da Vienna) e composto a Baden stessa, tra il 17 e il 18 giugno del 1791, pochi mesi prima di morire. L’Ave verum è per genere un mottetto – un pezzo sacro breve, anche senza strumenti, di solito polifonico – per coro misto, orchestra e organo: nelle appena 46 battute di questo gioiello minuto e pregiatissimo, troviamo una scrittura corale semplice, a una voce, e attentissima al significato della parola, una ricerca di timbri tersi e delicatamente sommessi. Qui Mozart ha come spogliato il mottetto del suo consueto apparato a più voci riducendolo all’armonia essenziale della voce sola, di un solo popolo orante e corale. Colpisce e fa riflettere il fatto che l’Ave Verum Corpus stia fra le ultime produzioni del genio mozartiano: questa, di breve durata, e l’ultima, più estesa ma incompiuta – la Messa di requiem in Re minore K 626 –, cantano ambedue con accenti intimi e partecipi – (non solo) drammatici questa, più sommessi l’altra – l’imminenza della morte e l’incontro decisivo con Dio.

Per la profondità della lettura offerta, riproduco quasi per intero l’articolo dello storico Danilo Zardin, pubblicato sul “Sussidiario.net” il 20 giugno 2014 e di cui invito alla lettura.

« […] Questo “corpo” a cui ci si consegna in atto di fiducioso, netto e libero riconoscimento adorante – anche se non c’è bisogno nella preghiera di dichiararlo esplicitamente: sarebbe quasi un eccesso retorico – coincide con il pane consacrato innalzato sugli altari delle chiese nel giorno della festa, portato regalmente in processione per le strade a scopo di supplica itinerante, venerato come scudo di protezione per l’intera comunità sociale dei cristiani. Ma la preghiera commossa sfonda l’apparenza del segno rituale. Dietro ciò che si mostra in superficie e si lascia vedere, ostenta la sostanza segreta svelata dallo sguardo della fede.

Nel segno materiale di un disco di pane fa precipitare la vera consistenza carnale della persona divino-umana del Redentore: il gioco dell’allitterazione tra il verum corpus del primo verso e il vere passum che lo segue subito dopo è in questo contesto cruciale. Qui non si elaborano sregolate fantasie devote: ci si attesta sulla semplice solidità oggettiva di una realtà davanti a cui il cuore e l’intelligenza dell’uomo restano assorti, colmi di lucida riconoscenza.

Lo stupore velato fino al culmine delle lacrime, verso cui spinge la tensione patetica della grande musica dei sommi maestri, è quello della memoria amorosa della “pietà”. Se “vero” è il corpo di Cristo che si celebra, di un uomo in carne e ossa è stato il destino che ha coinciso con il vertice della sua immedesimazione nella sofferenza del genere umano di ogni tempo. Centro di questa fusione tra il destino di Cristo e quello dell’uomo è il sacrificio della croce: qui il fatto cristiano raggiunge il suo massimo di densità coinvolgente. La fede amorosa del credente è attirata nel vortice del miracolo dell’amore che salva donandosi dal patibolo del sacro legno del Golgota. Come nel testo dell’Ave verum risale fino al cuore ardente di Cristo “immolato sulla croce per l’uomo”, ne insegue l’effusione inarrestabile nell’ “onda” del fiume di acqua e di sangue sgorgato dal suo fianco squarciato, e da questo dono misericordioso di energia divina spartita senza riserve con tutti gli uomini ricava lo slancio di invocare una vicinanza premurosa nella prova della morte, la pietà per la propria sorte eterna, il privilegio di poterLo a nostra volta “gustare” per sempre in una comunione senza più barriere e limiti di separazione: dalla morte passando alla vita nella sua pienezza totale, ricalcando lo stesso cammino che è stato il salto pasquale di Cristo dalla tomba del Sepolcro al trionfo della risurrezione piena di “dolcezza” e di luce.

Il movimento di idee che sta al di sotto dell’inno dell’Ave Verum Corpus, a ben guardare, è lo stesso che percorre la sequenza dello Stabat mater, o che si innesca nello scorcio conclusivo delle più classiche orazioni mariane, come l’Ave Maria o la Salve regina. Gli inventori di queste formule geniali della pietà cristiana non sono mai figure individuali identificabili. Alle loro spalle, sta la paziente codificazione di una grande devozione condivisa, prima vissuta nelle sue radici di esperienza, poi tradotta in equilibri di parole e ritmi di poesia. In particolare, spicca la forte vicinanza tra la logica d’impianto dello Stabat mater e l’Ave verum corpus. La loro sintonia riflette una genesi in larga parte comune: entrambi sono testi che affiorano dal febbrile cantiere inventivo dell’ultimo Medioevo.

L’Ave Verum Corpus, di nascita totalmente oscura, viene d’abitudine fatto risalire a redattori anonimi del xiv secolo. La data di emersione non è assolutamente casuale. Testo di esaltazione del vero corpo di Gesù, incarnato per noi e sacrificatosi sulla croce fino all’ultima goccia del suo sangue per ridonarci la vita, la sua fissazione in una stabile forma scritta si colloca esattamente a ridosso del primo decollo in grande stile della devozione incentrata sulla memoria eucaristica della presenza di Cristo nel segno del Sommo Sacramento.

Il Duecento, il secolo della fine di san Francesco e della giovinezza di Dante, aveva visto l’esplosione dei miracoli eucaristici e la crescita, anche dal basso del popolo cristiano, del culto della presenza reale di Cristo. Nel 1264 papa Urbano iv, da Orvieto, estese alla Chiesa universale la festa del Corpus Domini, che da poco andava introducendosi negli usi liturgici della cristianità. Da allora, il cammino verso l’espansione del realismo della pietà attaccata ai segni della memoria visiva e alla fisica identificazione con le sofferenze inflitte al vero Figlio di Dio disceso in mezzo agli uomini per liberarli dal peso delle colpe non fece che accentuarsi. Non bastarono le parole per contenere la forza d’impatto del sentimento cristo-mimetico. Venne subito in soccorso l’arte cristiana. Si mobilitarono la musica, il teatro, la pittura, la scultura policroma. Si inventarono gesti e nuovi rituali che davano sfogo agli affetti più vivaci degli individui e li spingevano ad agire, come avveniva nelle sontuose processioni corali del giorno dovunque dedicato alla festa del Santissimo Sacramento dell’altare. Con tutta la concretezza di ciò che si era, si tornava a calcare le orme già in modo paradigmatico impresse dal “vero corpo” di “Gesù dolce, Gesù pio, figlio di Maria”: in tutto uomo come ognuno di noi, e nello stesso tempo totalmente Altro ».

Danilo Zardin

Luca Montecchi
1° aprile 2020

diario dei giorni difficili