diario dei giorni difficili .48
Sono oltre due mesi che non esco di casa, quasi non mi ricordo più com’è fatto il cielo e come splendeva al mattino prima di sedermi nel mio solito banco. Mi manca tutto. Devo ammetterlo, io che non sono mai stato un grande studioso ora più che mai ho bisogno di tornare nella mia classe. Ho bisogno di svegliarmi al mattino ancora con la faccia addormentata, camminare fino alla stazione con le cuffiette per poi prendere il solito treno fino a scuola. La musica la ascolto ancora, non potrei mai vivere senza lei, ma non ha più lo stesso sapore. Mi mancano i miei nonni, i pranzetti che iniziavano a preparami già all’alba per strapparmi un sorriso che ricambiavano con tanto affetto. Le mie due nonne hanno sfidato il divieto per venire a farmi un saluto da lontano, ma non era più così magico. Mi mancano i miei amici, quando passavano a prendermi con le macchine tutte scassate ma a noi andava bene così, perché eravamo noi e non volevamo altro, era speciale. Spesso ci videochiamiamo per vederci un po’, ma senza guardarli negli occhi viene a meno una parte del rapporto, e il mio cuore non si riempie più come prima. Mi manca il sabato sera, quel giorno che aspettavamo per tutta settimana, le discoteche, i bar, le notti a dormire in giro. in fondo ho diciott’anni, vorrei spaccare il mondo e invece sono chiuso in casa e come se non bastasse nella mia stagione preferita dell’anno, quando il mondo fiorisce e le giornate sia allungano. Siamo in casa da due mesi e questo grido di insofferenza che proviene dai nostri cuori è la reazione più evidente, perché come ha detto oggi la professoressa di religione non basta dire che passerà perché io voglio vivere adesso, desidero che la mia vita abbia un senso già in questo momento non possiamo aspettare.
Mi mancano tante cose, e tra di loro in qualche modo tutte si somigliano. Questa è stata la mia prima riflessione: tutto ciò che mi manca è quell’incontro con la realtà, che a me è sempre piaciuto definire “Arte”. Ma che cos’è l’arte? Potremmo partire dalla tradizione greca, secondo la quale, le moire, dee del fato, affidavano una certa quantità di lana grezza ad ogni uomo districandola e intrecciandola fino a definirne il destino. La tessitura avveniva in due dimensioni: orizzontale e verticale. La prima seguiva lo scorrere incessante dei giorni, la seconda dava un senso al tempo e lo abitava. Che ne siamo consapevoli o meno la vita scorre in senso orizzontale e l’unica cosa che cerchiamo veramente è l’amore che rende il tempo durata. Amore inteso come rapporto tra me e la realtà, come qualcosa che mi faccia star bene, che sia una birra con gli amici piuttosto che un tramonto, il sorriso di una mamma o di una nonna. Tutto ciò che cerchiamo è verticale. Con questa prima riflessione ho concluso che è solo l’arte quello che da sempre cercavo e che tutt’ora vado cercando, nei più svariati modi in cui si manifesta. Perché era già dentro ad ogni racconto, in ogni luogo, in ogni ricordo, perché c’è sempre stata e ci sarà sempre un po’ di arte nelle nostre giornate e spesso sono le persone che abbiamo a fianco a mostrarcela. Quando questo incontro avviene, per un attimo tutto si ferma: perché verticale è il tempo dell’artista. Perché il tempo per chi lo abita, cioè per chi ama non passa: dura.
Riflettendo sono giunto ad una seconda conclusione. Ho realizzato che è proprio vero che l’essere umano è rapporto. Io non esisto senza lo sguardo di un altro, Io Filippo non ho senso di esistere se qualcuno non si prende cura del mio io, che non significa che allora non valgo niente, ma che tutto quello che mi è dato è fatto per essere condiviso e ho bisogno di un rapporto per ri-conoscermi e prendere in mano la mia vita. Nel mio percorso ho lasciato perdere molte cose, forse ho rinunciato a possibilità importanti, ma ho sempre avuto una gran cura dei rapporti e sempre ne avrò, perché mi sono reso conto davvero che essere liberi non significa poter fare quello che si vuole, un giorno qua ed il giorno dopo da un’altra parte. Essere liberi vuol dire dipendere da qualcuno, e più io consegno la mia vita nelle mani di un’altra persona, più io vivo intensamente il rapporto con l’altro dandogli la possibilità di rendermi felice ma allo stesso tempo di farmi soffrire, più io sono libero. È la stessa identica dinamica del rapporto tra uomo e Dio, e quando l’uomo pretende di fare a meno di questo legame, quando pensiamo che la vita possiamo darcela da soli ci stiamo inevitabilmente allontanando dalla realtà. Questo errore è chiamato biblicamente “peccato”, e ci tengo a dire che per me il peccato non è l’infrangere una regola ma è molto di più: peccare significa allontanarsi dalla propria felicità, chi pecca rinuncia temporaneamente ad un percorso per essere una persona migliore. Penso che il ragionamento di Dio valga per tutti, credenti e non, molto spesso mi ritrovo a parlare con miei coetanei non cristiani, il che per me non fa nessuna differenza perché li riconosco uguali a me, ma proprio per questa nostra uguaglianza che anche loro, che ne siano consapevoli o meno, dipendono da un amore che li ha generati. Il rischio di chi non crede, ma penso proprio che potremmo dire il rischio di tutti, perché anche a me spesso capita, è quello di avere degli idoli, che sì sono belli, brillano e ti fanno sentire potente ma poi non mantengono la promessa di libertà che cerchiamo. Perché l’idolo non vuole un rapporto, a lui non interessa di te. E chi sceglie di non essere libero è schiavo, e la schiavitù ha un prezzo.
I miei pensieri non si sono fermati qui, perché sarebbe stato come perdere una partita contro me stesso, dovevo dimostrare che la mia vita continua ed anche se nascosto un senso c’è e ci sarà sempre. Dunque, mi sono ritrovato a riflettere circa una tematica molto importante, scandita da due parole: rumore e silenzio. Per anni ho riempito la mia mia vita di impegni, sempre di più fino quasi a non avere più uno spazio libero, e lo facevo con piacere sia chiaro, mi piacevano le mie giornate, ma tra una cosa e l’altra è spesso venuto a meno qualcosa di importante: il silenzio. La chitarra suona e fa rumore, poi ci sono i pomeriggi in giro, rincasi alla sera e devi già cenare, se ti va male fai qualche compito e poi ancora a prendere una boccata d’aria oppure sul divano con la famiglia, insomma non c’è mai tregua e, ripeto sono contento che sia così perché ho una vita piena. Ma forse c’è un altro motivo per cui io, e penso un po’ tutti, viviamo così? Io penso di sì. Il silenzio ci fa paura, e se lo ascoltiamo attentamente ci riporta al centro di tutti i nostri pensieri, perché il silenzio, secondo me, è il luogo del cuore. Nel traffico delle giornate spesso qualcosa non va, stiamo male, qualcuno ci ha ferito, e la reazione più comune, e mi verrebbe da dire la più facile, è sotterrare questo fastidio, mettere a tacere quella vocina chiamata coscienza. Se ci fossero più silenzi saremmo uomini più consapevoli, perché conosceremmo il dolore e potremmo imparare ad abitarlo, a dialogare con lui invece che scappare, perché la vita devi guardarla negli occhi, non puoi scappare. Se ci fossero più silenzi, ci sarebbero più lacrime, ma anche più sorrisi, ci sarebbe più “mi dispiace” e meno “chissenefrega”, ci sarebbe un po’ più di Me e meno finzione.
In conclusione, posso dire che nel silenzio ho trovato dei mostri con cui ho dialogato, ma ho provato anche sensazioni piacevoli. Ora nel silenzio serale sul divano posso guardare la mia famiglia e capire davvero che le voglio bene, perché sono io a deciderlo e non il rumore del mondo. Posso pensare ai miei amici, ai miei nonni e decidere che io dipendo da loro anche se questo implica un po’ di dispiacere per non poterli vedere. Ora nel silenzio posso iniziare a pensare chi voglio essere davvero da grande perché prima mi faceva paura pensarlo ed ora ho tutto il tempo e la possibilità per farlo.
Andra tutto bene sì, ma solo se questo non sarà il tempo della disperazione, ma della speranza.
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