Saluto alla comunità del DCG
Mercoledì, 8 aprile 2020

Luca Montecchi

Stiamo vivendo tutti, nessuno escluso, un tempo fuori del comune, di una durezza fuori del normale. Un tempo carico di violenza subdola, perché, oltre a minacciare la salute – e tanti di noi ne fanno dolorosa esperienza –, questo Corona virus (coi decreti del Governo) ci separa gli uni dagli altri, ci sta trasformando in atomi viventi. In questo senso, non posso accettare il ritornello a colpi di hashtag “andrà tutto bene”, col quale si vuol negare, o esorcizzare, l’enorme, gigantesca evidenza di questo male invisibile e perverso, che non risparmia pressoché nessun Paese del mondo. [Anche quelli che congetturavano, e si vantavano, di tenere una gestione blanda, graduale, accettabile della vita e dell’organizzazione sociale di sempre, hanno dovuto capitolare: pensate all’Inghilterra, alla Svezia…]

Oltretutto, un male che di continuo ci tiene sospesi, incerti, soprattutto sul futuro, sul da farsi, sul muoversi, sull’agire. Insomma, incertezza, indeterminatezza, vuoto, illusione e delusione che si alternano, perché tale condizione tocca e investe l’essenziale spontaneo delle nostre vite.

Una studentessa dell’Alberghiero ha scritto una riflessione molto importante e più che sincera, autentica (la trovate in una delle puntate quotidiane del Diario dei giorni difficili):

“La cosa che manca è proprio quel contatto fisico che c’era quando si andava a scuola. Scrivo questo perché oggi stranamente è la prima volta che penso a questa cosa seriamente ed è la prima volta che penso alla mia tristezza in questo lungo periodo”.

Questo è, non si può negarlo. E non voglio negarlo a dei ragazzi che ora si aprono al mondo e alla vita, e che vogliono sì essere felici, ma non a prezzo della verità, dimenticando l’esperienza della fatica reale, non con l’ammanto, la maschera, di un’immagine di felicità illusoria e fasulla.

Una nostra liceale ha scritto queste parole, a commento delle sue giornate d’isolamento:

“L’impotenza la vivo anche di fronte alla consapevolezza che l’uomo non può mai dominare tutto, e che un essere microscopico ha messo in scacco il mondo. Non sto parlando solo in ambito biomedico, sto parlando di quell’uomo che si credeva padrone del mondo, dell’homo faber [oggi potremmo dire ‘tecno-scientifico’] del xxi secolo, che ora ha visto le sue fragilità”.

Del resto, e qui parlo proprio di me, mai mi è capitato in sessant’anni di trovarmi in una condizione di tale smarrimento, al punto che certe domande ultime prendono oggi come un senso di vertigine: che cosa regge all’urto del tempo? Cioè: che cosa conta davvero e più di tutto? Su che cosa poggia la mia esistenza? E anche: chi sono gli amici veri, che mi amano e mi sostengono senza finzioni? A volte scopro che non sono quelli con cui faccio le cene o passo le vacanze.

Ecco, sono queste le domande da farsi oggi: oggi, domani, dopodomani… Sono domande di senso, che quindi ci costringono a chiederci se c’è un senso. O, meglio, dov’è il senso. È il momento di chiedersi se quanto succede ha a che vedere con il comune desiderio di una vita piena, bella, ricca di affetti, in pace col mondo e in armonia con la natura, per capire se quel desiderio è vero o è una menzogna; e se quel che spesso ci diciamo, ci comunichiamo, è vero o no, e se c’entra con questa strana condizione.

Ma insomma, c’è un bene? Un bene c’è, che però è misterioso, cioè si mostra via via, non tutto in una volta, e vuol essere cercato e scoperto, riconosciuto, a poco a poco, fuori e dentro di noi. Perché il bene è prima di ogni altra cosa il senso delle cose che ci accadono, dei fatti che ci toccano – tutti, anche quelli che non vorremmo –, delle persone che ci sono date – tutte, comprese quelle odiose e sgradevoli –; il senso di noi stessi – che spesso ci chiediamo: che ne sarà di me? del mio domani? conto qualcosa io? A qualcuno importa di me?

Vedete, un primo effetto benefico del contagio e della strage ancora in corso (se di bontà si può parlare nominando un virus, che in latino vuol dire “veleno”) è questo: di colpo, come la vita ha mutato il suo corso e i suoi ritmi da un giorno all’altro, così le nostre categorie e le graduatorie che usiamo fra gli esseri umani si sono azzerate, o stanno per esserlo: sono un “figo” o sono uno “sfigato”? sono nel giro giusto o in quello sbagliato? posso farmi vedere amico del tale che “quegli altri” hanno deciso di tagliar fuori? ha ancora senso fare il bullo – mentre intorno a me le persone, magari le più vicine, muoiono o combattono la loro agonia? (E badate che simili domande non valgono solo per gli adolescenti, ma quasi altrettanto per gli adulti) Ecco, questi falsi interrogativi, questi falsi problemi che spesso ci rallentano e ci bloccano e ci fanno piangere, è chiaro come il sole che non hanno nessun senso. Lo scoprirlo, già questo è un bene. E ci fa star bene, o un po’ meglio, perché sollevati da un peso, più liberi non solo da un peso, ma soprattutto di essere, di desiderare, di vivere, di agire. Finanche nella momentanea (?), forzata, spiacevole condizione di separati da scuola e vicini da remoto.

Un bene è lo scoprire che non siamo padroni né della vita né dello spazio né del tempo, perché dipendiamo, siamo fatti da un Altro – e questo è un bene, dà gioia, dà pace, altro che guaio o scacco o maledizione! –: non siamo soltanto condizionati dalle attuali o future circostanze, ma siamo figli di genitori, nipoti di nonni che ci amano (e che ci hanno voluto bene e aiutato a diventar grandi), siamo allievi d’insegnanti che stimano la nostra intelligenza e la nostra libertà, che cooperano alla nostra crescita. Un bene è scoprire che i nostri compagni, specie in questi giorni difficili, diventano amici, entrano e restano dentro di noi. E forse mai come adesso comprendiamo la verità, densa e profonda, della parola “amico”. E anche i professori li scopriamo amici, perché ci aiutano a fare quel lavoro dell’intelligenza e del senso, che mai come in queste settimane vediamo essere così necessario, perfino indispensabile, come e più del mangiare e del bere, in quanto ci sostiene, quasi ci costringe a restare lucidi, a non lasciarci abbattere né confondere, a non perdere la salda unità del nostro io. È il lavoro di capire e di conoscere, che senza questi adulti non riusciremmo a fare da soli, anche perché in tale lunga reclusione è diventato molto complicato riprendere e tenere un equilibrato ritmo di studio.

In proposito, voglio ringraziare quanti ci stanno ringraziando, con lettere, biglietti o nel segreto: parlo di genitori e di Voi stessi ragazzi, che state cogliendo assai bene il senso dello sforzo che presidi e docenti stanno producendo per guidarVi e aiutarVi, appunto, a stare in piedi e a tenere alto lo sguardo su ciò che vale. Vi esprimo la mia e nostra gratitudine per due ragioni:

  1. perché così ci aiutate ad aiutarVi, ci fate capire che, mentre siamo sulla stessa strada, stiamo facendo un lavoro sì difficile ma utile alle Vostre persone;
  2. perché con questo lavoro, di cui a volte forse non si coglie subito tutto il beneficio, Voi con noi contribuite alla costruzione del mondo.

Per costruire il mondo, infatti, non basta possedere delle competenze (che ci vogliono, altroché), né per forza si devono costruire opere materiali (ci vogliono anche quelle, certo). Ma il costruire è anzitutto il costruire l’umanità nostra e degli altri che incontriamo e incontreremo, e per farlo ci vuole un’ipotesi di senso, che dev’essere per forza un senso buono, un bene. Del resto, non esiste scienziato che faccia ricerca (medica p.es., sul virus, p.es.) pensando di non trovare quel che intende ricercare, cioè di fare una scoperta, di capire e di sapere di più in quel campo d’indagine. Sapendo che un bene vero, durevole, efficace non è mai proprietà esclusiva di alcuno, anzi; diceva san Tommaso d’Aquino, il più grande filosofo: bonum est diffusivum sui, cioè [per sua stessa natura] “il bene tende sempre a diffondersi” là dov’è.

Pensiamo a quello spettacolo di dedizione e di carità che da settimane, con abnegazione, senza risparmio, stanno offrendo i medici, gl’infermieri e i sanitari di tanti centri di cura: certo che devono esser bravi ed esperti di medicina, ma capiamo all’istante che a muoverli non è la loro perizia tecnica (lo strumento), ma la volontà di cura (lo scopo), lo scrupolo di essere utili alle persone colpite dal male, fino al sacrificio di sé. Non ne saremmo affatto toccati e colpiti se al loro posto vi fossero automi dell’intelligenza artificiale, dei robot. Pensiamo anche, nel tremendo frangente economico che rende e renderà più povere le famiglie, a quanti imprenditori – piccoli, medi e grandi, molti di più di quelli che si conoscono o di cui raccontano i media – si mettono a disposizione delle urgenti necessità di produzione, o regalano buona parte delle loro ricchezze, o si tagliano gli stipendi per salvare quelli dei dipendenti, per non lasciarli senza lavoro, cioè sul lastrico.

Per fare un’opera ci vuole dunque almeno la percezione, l’intuizione di un bene presente per il quale la vita meriti di essere spesa e sacrificata. Senza sacrificio non c’è opera: dare la vita per l’opera di un altro. Soltanto un ideale così vasto e ardente fa nascere una comunità, e la comunità del “don Gnocchi” esiste per questo. Così il bene fra noi cresce e si fa largo, e tutti, anche Voi studenti, sarete sempre più capaci di bene e di opere grandi. Lo dice San Paolo nella Lettera ai Romani (8,28): “tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”. Dio: questo è il nome e il volto che il bene ha assunto e si è imposto nella storia – contro ogni barbarie, sopra ogni superbia, dentro ogni miseria –; un nome che vale anche per chi non crede eppure ha la semplicità di cuore di riconoscerlo presente.

Vi lascio infine con le parole fatte giungere dalla mamma di una nostra studentessa e pubblicate anch’esse nel nostro Diario:

“La speranza non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà bene, ma la certezza che questa cosa ha un senso, indipendentemente da come andrà a finire” (Vaclav Havel). Io vedo e sento in questa quarantena, fatti, gesti di umanità, tentativi di persone di non lasciare solo chi è in difficoltà. Vedo gente che sta cambiando. Il cuore dell’uomo è proprio fatto per il bene. E quanto bene sento domandare e vedo ricevere!
Io, ma credo tutti, mai come ora, facciamo esperienza del nostro bisogno di Qualcuno che dia significato, anzi che sia il significato della vita. Nelle nostre case, nelle nostre scuole, a Natale, abbiamo festeggiato un Bambino che poi si è posto nel mondo dicendo di essere la Via, la Verità e la Vita, che è morto e Risorto, ed è Presente qui ed ora. La speranza cristiana quindi, non coincide con il ‘lieto fine delle favole’ ”.

È la certezza che “tutto sarà bene” (dice la beata Giuliana di Norwich, fra le più grandi mistiche della storia), in questo istante e sempre, perché un Altro conduce la Storia.

Introduzione al Triduo e alla Pasqua del Signore
Mercoledì, 8 aprile 2020

don Ottavio Villa

Pasqua!

Il particolare momento dovuto alla epidemia in corso sta portando a galla nella coscienza di molti la consapevolezza della fragilità della vita, della precarietà della salute e la debolezza del nostro animo a reggere il timore e l’incertezza.

E la questione non è semplice, e non riguarda solo ‘alcuni’.

Non credo, tra l’altro, che si debbano trovare, se mai ce ne fossero, soluzioni di natura filosofica, culturale o riempitivi del tempo libero a questa situazione. Il tempo, si è sempre detto, è prezioso e quello perduto non ritorna più. Certo lo si può recuperare, ma è un’altra storia.

La domanda allora, in questi giorni, riguarda il presente, l’adesso, che per essere tale, e perciò degno di essere vissuto come tale, ha bisogno della certezza della costruttività. Ma quando questo è possibile? Se si costruisce sulla roccia. Non è una semplice similitudine, perché ognuno di noi fa quel che fa solo per la certezza che esso duri, e serva perciò all’utilità di qualcuno o di qualcosa, e ultimamente per sempre. Perciò la domanda che è presente in tutti, anche in forma inconsapevole, è: c’è qualcosa che renda utile la vita? che sia positiva? il mio lavoro come il mio studio? che non lasci le cose e i miei rapporti, gli affetti specialmente, in balìa dell’incertezza o persino del nulla? e la salute minata da un ultramicroscopico virus… – la mia e quella di mio padre e di mia madre e dei miei amici?

Insomma, gridava Ivàn Karamazov: “Ho bisogno di un compenso, e di un compenso adesso, non nell’infinito, chissà dove e chissà quando, ma qui in terra, e voglio vederlo coi miei occhi. […] E se sarò già morto mi devono risuscitare, perché, se tutto accadesse senza di me, sarebbe una cosa troppo avvilente”.

Questo grido esprime anche il contenuto di ogni nostra domanda. Perché questa domanda è presente nel cuore dell’uomo? Perché siamo stati suscitati da una promessa, una promessa di compimento che costituisce il fondo del nostro essere: quella del centuplo quaggiù, la definisce Gesù nel Vangelo. E Gesù è venuto per questo compimento: “Io sono sempre con voi, fino alla fine del mondo”. Cioè che la vita è per un Altro, che la legge della vita è il dono di sé.

In queste sere, mi ha colpito che alcuni di voi si siano trovati insieme. E, invitando tutti, hanno proposto la recita del rosario per i malati delle nostre famiglie. Un gesto che ha tutta la forza di questa certezza, quella certezza che la Pasqua ha portato nel mondo: Gesù di Nazareth, che, morto e risorto per la nostra salvezza, si è posto come ragione e speranza della vita di tutti. Alcuni, all’inizio, l’hanno preso sul serio e han cominciato a vedere che era vero, e, da loro, attraverso la loro testimonianza spesso costata anche il sacrificio della vita, la sua Presenza ha raggiunto anche me, noi.

Anche il dolore, la sofferenza e la morte, avranno la possibilità di una luce, in una misteriosa partecipazione al dolore, alla sofferenza e alla morte di un Altro, e per la salvezza di tutti gli uomini. Perché – come dice il grande drammaturgo francese Paul Claudel – “la pace, chi la conosce, sa che la gioia e il dolore in parti uguali la compongono. […] Forse che il fine della vita è vivere? … E che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data? […] È dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna”.

C’è un segno nel quale la Pasqua si documenta: è il perdono, come memoria di una riconciliazione con sé stessi, con la verità di sé stessi, cioè con Dio e i fratelli, memoria del perdono di Cristo, affinché l’essere insieme non sia puramente occasionale e indifferente. Ma una amicizia.