Per gentile concessione di Giovanni Borgonovo, padre della prof. Chiara B., la nostra collega di Scienze Motorie, volentieri pubblichiamo la sua memoria degli ultimi mesi di vita della moglie Luisa, deceduta dopo lunga sofferenza e acuta malattia, il 29 luglio scorso.

È un racconto che commuove e da cui tutti hanno da imparare, anche quanti Luisa non hanno avuto la fortuna di conoscere.

Buona lettura,
Luca Montecchi

Gli ultimi due mesi con Luisa

“Il Signore ha dato, il Signore ha tolto”

di Giovanni Borgonovo

marito di Luisa Viganò, nata al cielo domenica, 29 luglio 2018, a Giussano

Durante la settimana santa, Luisa, di notte, cadendo mentre si recava in bagno, si rompe il femore. Operata al Niguarda, vi trascorre dieci giorni, poi viene trasferita alla clinica Zucchi di Carate per la riabilitazione. Vi rimarrà il mese di maggio. Poi due mesi a casa, dove inizia la cura del dolore. Facciamo un passo indietro: Luisa era malata di un tumore al polmone, e l’oncologa aveva da qualche mese interrotto la cura perché risultati ulteriori non avrebbe potuto ottenere. Pertanto, Luisa aspettava il momento di riprendere la cura, sennò il tumore poteva avanzare.

Proprio la TAC di maggio rivela che il tumore è in metastasi, per cui l’oncologa le dice che il suo organismo non può sostenere una cura. A me nel suo studio parlerà di qualche settimana di vita, al massimo due mesi. Non so dir come mi sentii a quelle parole. Ero spaventato, vuoto.

Come avrei vissuto quell’ora con Luisa in autolettiga da Niguarda fino a Carate? Un silenzio difficile, poi: “Cosa ti ha detto la dottoressa?” “Quello che ha detto a te: per ora non ti può curare perché sei troppo debole” Era vero, ma non era tutta la verità. Luisa l’aveva ampiamente intuita, guardandomi: ero impietrito dalle parole della dottoressa, mi sembrava di non aver più volto. Ai figli ho dato la brutta notizia come son stato capace. Eravamo presi da grande sgomento. Ognuno ha pianto le sue lacrime e detto le sue preghiere.

Io dovevo stare con lei tutto il giorno. Non ho avuto il tempo di prepararmi per questo non facile compito o, meglio, ho avuto tutta la vita. Chiedevo in continuazione a Dio di aiutarmi, di illuminarmi, e soprattutto di essere degno di quel compito che ora mi assegnava. Dovevo servirla in tutto. Volevo farlo bene perché, prima che moglie, era una Sua creatura, e quante volte in quei giorni questa parola tornava tra i miei pensieri!

Quando le lavavo i piedi, quando glieli massaggiavo, quando la lavavo e poi la cospargevo di olio di mandorla, mi veniva in mente Gesù e i suoi gesti di pura gratuità. Nella vita quante volte mi si era presentato questo Gesù nella bellezza delle cose da lui fatte! Volevo imitarlo, gli chiedevo di aiutarmi in questo compito che mi aveva assegnato, e tutto, senza accorgermi, avveniva con estrema naturalezza. Io stesso mi meravigliavo.

Ho pianto nel silenzio. Mi commuovevo nel guardarla quando riposava. Mi guardava a lungo, mi facevo guardare, non fuggivo il suo sguardo in cui erano impressi un dolore e un’attesa per i quali non potevo fare nulla. Mi rivolgevo a Dio, a volte non sapevo cosa chiederGli; spesso, il dono della gratuità.

Avevo salutato gli amici di Portofranco e lasciato il lavoro che lì svolgevo da dieci anni. Lì, nel rapporto coi genitori, i volontari e i ragazzi, la gratuità era la cosa più importante, la virtù che dovevamo sempre imparare; una cosa cambiava, ora: non sarei più stato tra centinaia di persone ma solo con Luisa.

Lei, tutte le volte che la mettevo in carrozzella o in poltrona o che altro, si preoccupava che non facessi eccessiva fatica, e così era anche coi figli. Nei due mesi trascorsi insieme l’idea di non poter fare nulla e d’esser sempre servita, le pesava grandemente. Mi veniva spesso in mente allora quell’espressione delle lodi: “Non sapete che siete tempio di Dio/ e che lo spirito di Dio abita in voi?”, ed io pensandoci avvertivo la grandezza di questo dono come la mia indegnità nel viverlo e chiedevo a Dio di aiutarmi a non farle pesare quello stato di immobilità e di fornirmi porzioni sempre più abbondanti di carità.

La notte a volte passava nella tranquillità, a volte no. Allora mi avvicinavo, le prendevo la mano, a lungo sentivo lamenti, poi, a un certo punto, con chiarezza “Sono stanca, sono stanca”; altre volte la sentivo dire “Dio, Dio, aiutami.” Era straziante sentire quelle parole. Ero spaventato. Non sapevo cosa fare. Una volta ho perfino telefonato in clinica e mi han detto di farle una puntura di morfina. Aveva ripreso sonno.

Sapevo bene che non era quella la soluzione che voleva Luisa. Quelle parole mi portavano sulla soglia della sua anima, dove era in atto una dura lotta tra la malattia mortale che avanzava e la sua volontà di vivere: una lotta impari. Per fortuna avevamo un alleato: Dio. Io ero impotente. Assistevo in silenzio. L’unica cosa che sapevo fare era tenerle la mano, che Luisa stringeva. Nel silenzio e nell’oscurità a volte dicevo a Dio: “aiutala, aiutala”. Volevo, in qualche modo, forzare questo Dio. Ma ero troppo debole davanti a Lui.

Eppure, Dio agiva, esaudiva le nostre richieste.

Dopo aver fatto colazione, le dicevo: “prendo il libretto delle lodi?” E Luisa per due mesi ha sempre detto di sì anche se nel suo volto; a volte, l’angoscia e la fatica della notte avevano lasciato qualche segno. Come ero contento del suo sì! Non era per nulla convenzionale. Luisa, ogni mattina, col suo sì, si affidava nuovamente al suo Signore. E mi veniva in mente quel sì di Maria da cui era partita la storia di Dio, nostro compagno, qui sulla Terra. Anche per Luisa quel sì dava l’avvio ad una nuova giornata.

Iniziavamo con la preghiera a don Giussani per chiedere la guarigione di Luisa ed ecco a un certo punto queste parole: “L’inizio di ogni giornata sia un sì al Signore che ci abbraccia e rende fertile il terreno del nostro cuore, per il compiersi della Sua opera nel mondo che è la vittoria sulla morte e sul male.” Quando si prega si contemplano e si chiedon le cose che si dicono e quel “ci abbraccia”, quel “rende fertile”, quella ”vittoria sulla morte”, scendevan come un balsamo nell’anima di Luisa e mia. Iniziare la giornata col Signore che prendeva sempre l’iniziativa, dava nuova energia e pace. E il nostro sì era facilitato dalla Sua affezione e potenza.

Poi le lodi: “O Dio vieni a salvarmi/ Signore vieni presto in mio aiuto”.

Potevamo terminare le lodi con queste parole. Potevamo ripeterle all’infinito senza stancarci. Io spesso in quelle giornate le ripetevo. Luisa era tutta in quelle parole. Quando toccava a lei pronunciarle, un nodo le prendeva la gola, le si inumidivan gli occhi e non riusciva a parlare. Allora, le prestavo la mia voce.

Che abisso tra la mia preghiera e la sua! Le mie, sembravan parole, le sue, lacrime e sangue che nessuno poteva confortare se non Lui, il Signore da lei amato e servito.

Quando doveva dire “Con l’anima piena di gioia e di allegrezza” la voce non veniva. Quando invece diceva “La soccorrerà Dio, prima del mattino” e ancora “Al mattino saziaci con la tua Grazia”, allora la voce ritornava. Per Luisa nessuna parola era vuota.

E poi: “Il nemico mi perseguita, calpesta a terra la mia vita. In me langue il mio spirito/ si agghiaccia il mio cuore. A te protendo le mie mani/ sono davanti a te come terra riarsa. Rispondimi presto Signore,/ viene meno il mio spirito. Non nascondermi il Tuo volto. Per il Tuo nome, Signore, fammi vivere/ liberami dall’angoscia, per la tua giustizia.”

Luisa era tutta in queste parole dette con un filo di voce, ed io con lei le riscoprivo.

Nelle lodi del sabato, poi, c’era quella bella espressione di San Paolo: “Mi protendo nella corsa per afferrarLo, io che sono già stato afferrato da Cristo”. Ci ricordava in modo semplice ed energico cosa eravamo al mondo a fare. In quei mesi, Luisa, che avrebbe voluto fermare quella corsa verso la morte e che avvertiva quanto il tempo si faceva breve, sentiva l’urgenza di quelle parole, sentiva nella forza di quel protendersi tutta la spossatezza della sua anima ma, nello stesso tempo, che Lui la teneva, la sosteneva. Quel “Luisa è forte”, che molti mi dicevan, aveva la sua radice in questo sostegno.

L’aveva afferrata piccola nel battesimo e di nuovo, cosciente e aperta alla vita, coi ragazzi di G.S., ora la prendeva in braccio, e finalmente lei poteva lasciarsi andare, come fa un bimbo tra le braccia di sua madre quando è molto stanco, quando è sfinito per il gran correre.

La sera, prima della buona notte alla mamma, coi figli recitavamo l’Ave Maria e quelle parole dette migliaia di volte: “Santa Maria Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”, ora pacificavan tutti perché (in quest’ora così difficile) eran dette per noi, dalla Madre di Dio.

Dopo le lodi arrivava la fisioterapista, e Luisa l’attendeva con gioia perché voleva ritornare a camminare. Obbediva ad ogni cosa come una scolaretta; a volte le cose procedevan bene, a volte no. Federica la incoraggiava, le segnalava i piccoli, importanti miglioramenti. Quando era il momento di muovere dei passi col deambulatore ed era necessario l’aiuto di uno che la seguisse con la carrozzina, io ero molto contento di farlo. In certe giornate però, lo scoramento era grande e diceva: “Non ce la farò mai”.

Un altro giorno, mentre dalla poltrona la mettevo in carrozzina, poiché la gamba ammalata non ubbidiva, l’avevo un po’ strattonata; quella volta disse “Mi strattoni ed io sono infelicissima”.

Un giorno stavamo pranzando e le feci notare che era piuttosto taciturna. “Non ho più nulla da dire”, rispose. “Rimane l’essenziale”, dissi io. “Questo essenziale a me proprio non piace”, lei pensava alla morte, io a Gesù: i due lottatori che si contendevano l’anima di Luisa, la quale ben conosceva, per esperienza, il Vincitore. Ma di quel combattimento, Luisa portava spesso, in silenzio, segni dolorosi.

Luisa era solita, il mercoldì, quando ancor camminava, con una sua grande amica che la veniva a prendere in macchina, andare all’In-Presa, dove, con altre amiche volontarie che lì lavoravano, stava in buona compagnia, per un po’. Quando si è ammalata e non poteva più muoversi, queste amiche, tutti i mercoldì, venivano a casa a farle compagnia. Le aspettava. Com’era contenta!

Come mi colpivano queste donne! Portavan sempre qualcosa: dolci, frutta, verdura degli orti, verdura già cotta, fiori ed altro; una mia sorella arrivava trafelata con grandi ceste in cui c’era ogni ben di Dio, e per quanti giorni ha cucinato per noi e quanta roba! e io a dir loro: “ma che esagerazione!”, e loro: “Luisa merita ben altro!”. Una di loro un giorno mi dice: “In realtà era lei che si prendeva cura di noi e ci faceva dono di sé e della sua compagnia”.

Poi, mentre le accompagnavo al cancello sentivo un ritornello che ascoltavo volentieri: “Come è forte, la Luisa; come è serena; ascolta sempre (ed io sapevo quanto, a volte, si stancava; ma gli altri, per lei, venivan prima, anche della stanchezza); come è umile; la tua Luisa fa tenerezza e ci regala tenerezza; Luisa non si lamenta mai”. Molti, in quei giorni, osservavano la stessa cosa, meravigliati. Luisa accettava questo stato che non le piaceva e lo offriva al suo Signore.

E tutte sapevan che Luisa si avvicinava alla fine! Qualcuno, con le lacrime, mi diceva che in lei splendeva qualcosa e che, quando se ne andavano, eran loro a ringraziarla e tornavan sempre volentieri. Qualcuno poi era diventato di casa: quasi tutti i giorni tornava a vedere “la sua Luisa”. Un ritornello che mi aiutava a scoprire meglio il cuore di Luisa. Ancora mentre scrivo queste cose e tante altre potrei scriverne, piango di commozione.

Come l’hanno coccolata, come l’hanno amata. Mi sembran cose tanto umane che paion divine.

Com’era contenta quella sera quando il suo Giacomo, prima di salutarla, le dice con gioia grande che ha fatto la morosa. Bisognava guardare il suo volto e anche il mio! Luisa aveva pregato tanto per la sua vocazione!

Il parroco, poi, rispondendo al desiderio di Luisa di ricevere la comunione giornalmente, aveva organizzato un manipolo di donne, che a turno le portavan l’eucarestia. Venivan verso le 18, e c’era sempre qualcuno con lei. Un venerdì alcune mamme, con non pochi bambini che giocavano nel prato, recitavano un rosario in giardino, e l’intenzione di una decina di Ave Maria era per la guarigione di Luisa.

Quel giorno, a portare la Comunione era venuto il parroco e, poiché c’era un po’ di gazzarra, io, ad alta voce dico: “Arriva Gesù, arriva Gesù”, e tutti si fa silenzio. Il giorno dopo, un bimbo che aveva assistito alla scena grida: “arriva Gesù, arriva Gesù”. Era un’amica che portava la Comunione. Questa è stata una formula felice che ha consentito a tutti quelli che erano in casa al momento della Comunione di vivere, non un rito, ma la Presenza di Gesù che arriva e rende felici.

Mi colpiva quando, prima di dire “Ecco l’Agnello di Dio…”, queste ministre si inginocchiavan davanti alla particola della Comunione, un gesto che in una casa, dove si mangia, si lavora, si dorme, non si fa. E mi veniva in mente che non ci si inginocchia se non davanti a Dio. Tutti i giorni, anch’io, mi inginocchiavo davanti a Luisa per toglierle la scarpa e la calza sinistra zuppe, perché una piaga piangeva in continuazione e le bagnava. Poiché in altro modo non sarei riuscito, inginocchiarmi era una necessità, ma anche l’umile gesto di chi serve una Sua creatura. E così imparavo a vedere nelle cose umili i segni della Sua presenza.

Luisa si preparava a riceverLo come una bimbetta della prima Comunione con la coscienza che Lui era presente anche quando, nella lotta contro la morte, sembrava lontano. Poi aveva voluto ricevere il sacramento dei malati. Gliene aveva parlato il parroco un giorno durante la confessione. Aveva invitato una sua amica, pure lei malata, a ricevere questo sacramento. C’erano i figli e un po’ di amici. Eravamo tutti contenti perché anche su di noi scendeva il dono della fortezza e della consolazione che il parroco aveva chiesto a Dio per Luisa e Gabriella.

Luisa è prossima alla fine e sua figlia Francesca è in America a lavorare. Alla dottoressa che era venuta a visitarla chiede: “Quanti giorni mi rimangono?”. Risponde che non è lei padrona del tempo, per cui avrebbero potuto anche scambiarsi gli auguri di buon Natale. Luisa di nuovo chiede: “Se lei avesse una figlia in America cosa farebbe?” “La farei venire a casa subito”.

Si mette in moto la macchina per rimpatriare Francesca, che non sapeva di questa fine imminente, che aveva sorpreso tutti. Arriverà il giorno dopo, e quando si abbracceranno ci sarà spazio solo per un lungo pianto di commozione. La sua Francesca era arrivata in tempo. Quella notte Luisa entrerà in un sonno profondo durato due giorni, nel quale morirà.

Bisogna fare un passo indietro. Il mattino del 26 luglio, Martino, come faceva spesso in quei giorni, passa a salutare e mi consegna una lettera per la mamma. Gli chiedo se posso leggerla anch’io.

“Ciao mamma,

quando sarai davanti a Gesù,

gli parlerai di noi,

poi ci guarderai

e noi diventeremo più santi

perché tu intercederai presso il Paradiso. Allora saremo più amati,

qui sulla Terra,

da quel Gesù che tu tra poco

conoscerai pienamente.

Grazie per avermi dato la vita

Grazie per avermi dato un cuore semplice Grazie per avermi educato

Grazie per avermi amato.

Il tuo Martino”

Mi ero chiuso in bagno a leggere, mi trovai a singhiozzare, ero indeciso se consegnarla a Luisa. Conteneva espressioni troppo forti. Decisi, per fortuna, di consegnargliela.
Luisa leggeva in silenzio e lentamente. Io a viso basso, poi ogni tanto la guardavo. Ero pieno di tremore. Erano passati tre minuti. Il suo volto si irrigava di lacrime. “Luisa, hai letto?” Non rispondeva. Poi con un filo di voce: “Martino è un bel regalo “.

Quelle di Martino eran le parole più belle e commoventi che avevo sentito in quei giorni e che anche i suoi fratelli avevano ammirato.

Mentre leggo quelle parole e scrivo, ho pensato che Martino ha avuto un’ispirazione particolare e il coraggio della bellezza.

Così Martino aveva squarciato il velo che ci impedisce di vedere bene.

Martino bussava al cuore di sua madre perché vedesse le meraviglie di Dio.

Martino doveva bussare perché aveva capito che era giunta l’ora e sua madre l’ha ringraziato commossa.

Il cuore ardente di Luisa aveva bisogno di parole che vengono da un cuore ardente.

È proprio vero che Dio pensa e provvede.

Luisa ha guardato a lungo quelle parole che le schiudevano la realtà eterna, il dono promesso da Cristo ai Suoi amici: il Paradiso, la Sua compagnia.

Luisa era luminosa.

Luisa, poi, è entrata in un sonno profondo.

Aumentava intanto il numero delle persone che volevan salutarla.

Non trovai di meglio che far leggere a tutti la lettera di Martino. Eran parole che sorprendevano. Molti eran commossi e il silenzio che si creava consentiva a tutti di guardare Luisa, nella cornice di quelle parole vibranti d’amore e di fede.

I figli, negli ultimi due giorni, si eran trasferiti a casa nostra perché imminente poteva essere la sua morte. Il dottor Nobile, che spesso veniva a trovare Luisa, aveva suggerito ai miei figli di tenerle bagnate le labbra, sarebbe stato di sollievo. Son salito in camera dove avevo ancora, nella scatola, i fazzoletti mai usati che mia mamma mi aveva dato per le mie nozze, 44 anni fa. Abbiam fatto come ci suggeriva; poi, quel fazzoletto, lavato e pulito, l’ho messo via come fazzoletto della pietà.

Don Sergio, che era rimasto con noi a pregare, aveva chiesto di chiamarlo, a qualsiasi ora. All’una, Martino gli telefona perché la mamma sta morendo. Egli ci accompagnerà con la preghiera e il silenzio fino alla sua morte.

Quello che abbiamo scritto sulla immaginetta della mamma è di S. Ambrogio

“Vieni, dunque, Signore Gesù…
Vieni a me, cercami, trovami,
prendimi in braccio, portami”

Avvicinarci alla morte con queste parole di Ambrogio fa capire che Cristo vince la morte con una sconfinata tenerezza. E pensare che per due mesi i figli, la sera, venivan proprio a prendere in braccio la mamma per metterla a letto, perché io non mi affaticassi troppo, diceva lei. E così mi han rubato la parte più bella.

Il loro silenzio e la loro premurosa attenzione sono stati un dono e un conforto grandi. E così anche la presenza quotidiana dei suoi fratelli e la visita inaspettata di don Fabio, che dice mentre prega sottovoce: è un grande Mistero questa morte che aiuta la comunità a crescere.

Al funerale son venuti i direttori del lavoro dei miei figli e con strana consonanza han detto che era stato una cosa bella, molto bella. Si sono subito corretti perché sembrava sconveniente, in quella circostanza, simil parola. Ma avevan visto bene, perché la bellezza dei canti, le parole della liturgia, il silenzio, la preghiera corale, le parole del parroco, i sacerdoti intervenuti e la S. Comunione ricevuta da tanti giovani e adulti ci han fatto presentire qualcosa del Paradiso.

Con meraviglia mia e di molti abbiam visto tantissimi amici di Carate che erano appena partiti per una vacanza in montagna a Mazzin di Fassa. M’è parso un gesto folle questa venuta a Giussano, ma pieno di un’amicizia e di una tenerezza che non so dire e che Dio ricompenserà.

Gli amici di Portofranco li ho baciati, eran silenziosi e commossi: mi hanno riempito di gioia.

I canti che hanno accompagnato la sepoltura al cimitero mi hanno fatto venire in mente gli Angeli che cantando annunciavano la nascita di Gesù a Betlemme, mentre qui annunciavano la nascita al cielo di Luisa. Il canto di gioia degli Angeli era il nostro canto di gioia per Luisa, per noi ancora velato di mestizia.

Oggi, 15 agosto 2018 festa di Maria Assunta, siamo a Messa nella chiesa di Santa Margherita Ligure. Ho detto ai miei figli che il secondo nome della mamma era Maria Assunta, essendo nata l’anno in cui era stato proclamato il dogma dell’Assunzione di Maria al cielo, il 1950. Che bella coincidenza!

Ho avuto, dunque, la fortuna di vedere in queste settimane, ancor venate di tristezza e dolore, tante cose belle che accadevan numerose, nella nostra casa. Quante volte Gesù l’ha visitata! È stata una casa benedetta. Che molti sian rimasti commossi frequentando Luisa è forse perché un riflesso della Sua bontà e bellezza splendeva sul suo volto.

L’ho amata e servita come Dio mi ha chiesto. Egli non ha rifiutato la mia miseria e le mie gravi imperfezioni nello svolgere un compito a volte difficile, a volte commovente. Mi ha rimesso in piedi centinaia di volte. Ho pregato perché accettassi quanto accadeva come suo dono. Un amico mi ha ricordato quanto scriveva Manzoni: “Dio non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Centinaia di persone mi han detto che Luisa ed io eravamo nelle loro preghiere e nei loro cuori: questa Comunione di Spirito è già un miracolo.

In questa compagnia finale vedevo che tutto stava finendo, finiva, ma, in lei, l’amore per Cristo era vivo. L’ultima santa Comunione ricevuta da Luisa a letto era stata divisa a metà (faticava a deglutire) con me.

Un grazie commosso a tutti

Giovanni