Di continuo essi cercano di sfuggire

Al buio di dentro e di fuori,

Sognando sistemi così perfetti che nessuno avrà bisogno di esser buono.

Ma l’uomo che è offuscherà

L’uomo che fa finta di essere.

TS Eliot, The Rock, Coro vi

La comunità del “don Gnocchi” entra nel 2019 avendo passato un anno – e superato il trentennio, grazie a Dio – di soddisfazioni: per l’accresciuto numero di studenti iscritti, già entrati e prossimi a cominciare; per il credito di cui l’Istituzione è circondata; per il calore e la stima di tante, tante famiglie che ci affidano i loro figli – e che per questo ringraziamo –; per lo slancio miracoloso con cui ogni mattina entrano in classe i ragazzi; per l’impegno culturale ed educativo cui, dentro e oltre le lezioni, non intendiamo rinunciare. In ciò fedeli, lo speriamo, allo spirito e all’impeto di verità e di bene che accese di entusiasmo i fondatori.

L’educazione, come impariamo sempre, è introduzione alla realtà, a tutta la realtà. Un luogo è scuola quando questa educazione alla realtà è vissuta come esperienza sistematica e giudicata.

In questi mesi, siamo stati più volte visitati da lutti che hanno colpito negli affetti più profondi insegnanti, famiglie, studenti. La testimonianza di speranza che riceviamo da coloro che sono provati è divenuta un tesoro prezioso che possiamo condividere. Essa ci dice, in primo luogo, che esiste, ed è viva, la consapevolezza incarnata del significato della vita e della bontà del suo destino, che emerge nei versanti più ardui del cammino umano, perché la normalità dei giorni è scandita dal rapporto con la realtà.
Proprio il legame con l’ostinato ingombro della materia, la carne della vita, contrasta ogni riduzione ipotetica, virtuale o sentimentale della serietà del vivere.

 

Come afferma il grande filosofo francese Rémi Brague: “Le generazioni future esisteranno se decidiamo ora di chiamarle all’esistenza. Ma non possiamo certamente chiedere la loro opinione. E non possiamo essere del tutto sicuri che saranno felici. Abbiamo il diritto di farle nascere solo se la vita è un bene, un bene forte e in sé. Come affermarlo se non crediamo che tutto ciò che esiste è stato creato da un Dio benevolo?” (dall’intervista data al quotidiano “Avvenire”, 2 gennaio 2019).

Per fortuna, o per grazia, restiamo ancorati alle voci di maestri che non si arrendono al nonsenso dilagante, anzi insistono a mostrarci la direzione da tenere e la meta da perseguire. Perché questo anzitutto è il senso: il senso di marcia. Maestri che ci confortano e volentieri invitiamo ad ascoltare.

Fra le molte parole dette e scritte negli ultimi mesi, gli stralci che proponiamo di due importanti interventi – a distanza di quarant’anni l’uno dall’altro – sono di quelli in cui la teologia non parla il linguaggio degli addetti alle cattedre, bensì aiuta a leggere e capire il mondo in cui siamo “gettati”, e soprattutto a viverci con fiducia e speranza. Il punto di vista di Dio che custodisce l’umano e lo salva.

Voci come queste, giudizi di tale portata, desideriamo tenerli presenti nell’anno da poco cominciato, e farne oggetto di riflessione e parametro del lavoro quotidiano.

Il Rettore

da Lo scandalo del Dio incarnato
Il Foglio, 25 dicembre 2018

Angelo Scola

[…] Ebraismo e cristianesimo hanno in comune, fra tante altre cose, la concezione antropologica di base. Non condividono la visione greca, alla fine dualistica, di anima e corpo. L’uomo è una realtà unitaria. Il Primo e il Secondo Testamento esprimono bene la radicale differenza con il mondo greco in senso generale. Il suo prodursi prese molto tempo e forse non è ancora del tutto compiuto.

Anzi, a certi livelli, il rapporto con la grecità continua a far sentire i suoi benefici. Ma è necessario ripulire radicalmente l’antropologia greca di base dal suo dualismo. Esso inevitabilmente relega il corpo naturale nell’animalità per esaltare l’anima come capace, una volta liberata dal corpo, di cogliere la luce dell’Assoluto, trovando in questa contemplazione la sua immortalità. L’Alcibiade di Platone afferma che l’uomo “non è altro al di fuori della sua anima” (38 C).

Balza così subito all’occhio il grande paradosso: il cristianesimo colloca la salvezza proprio nella carne. Una strana economia di salvezza è quella cristiana se affida alla carne, destinata a tornare polvere, il compito di strapparci dalla morte. Non per nulla la reazione dei greci all’Areopago fu quella dell’ilarità. “Su questo ti ascolteremo un’altra volta”, dicono andandosene pieni di sarcasmo. Eppure, l’urgenza di comunicare agli uomini la bellezza, la bontà e la verità dell’evento di Cristo ha spinto i cristiani a impiegare il linguaggio allora dominante dell’ellenismo. Questo non significa però che il Logos di cui parla Giovanni sia identico al logos greco. La Prima lettera di Giovanni mostra bene la differenza: “Chi non ama non ha conosciuto Dio perché Dio è amore” (1 Gv 4,8). Neppure si può intendere l’incarnazione secondo il vangelo di Giovanni come un semplice modo del manifestarsi di Dio. È necessario prendere sul serio due affermazioni. Giovanni dice “Il Verbo si è fatto carne”, non si limita a dichiarare che il Verbo ha preso carne. E vedere in questa differenza espressiva l’invito cogente della Prima Lettera di Giovanni (4,2): “In questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne è da Dio”.

dall’Omelia alla Parrocchia St. Martin Unterwossen
10 dicembre 1978

Joseph Ratzinger

La Chiesa, nel corso del suo anno liturgico, ripercorre l’intera storia della salvezza. Per molte settimane si presenta a noi con l’atteggiamento di Osea o di Elia: e cioè ammonendoci, scuotendoci, esortandoci, volendo strapparci dal nostro egoismo, dalla nostra avidità, dal nostro autocompiacimento. Ma nell’Avvento giunge l’ora del Dio buono, del Dio che consola. Diviene evidente che la Chiesa non è solo un’agenzia morale, un’organizzazione umanitaria, che essa non esige solo il rispetto di vari precetti, indica bisogni e pone richieste, ma che è lo spazio della grazia, in cui Dio le va incontro soprattutto come colui che dona e che dà. Ma dove si trova questa consolazione? Dio come consola in realtà?

Il primo livello consiste nel fatto che siamo chiamati. Egli desidera che irradiamo la luce della fede che ha posto nei nostri cuori e così riscaldiamo il mondo. Egli vuole consolare attraverso di noi e ci fa sapere che egli ama in particolar modo proprio gli afflitti, gli sconsolati, che s’identifica con loro e in essi attende noi e la nostra bontà. Il nome dello Spirito Santo è «Consolatore». Dio ci aiuta nello Spirito Santo tanto più quanto più siamo uomini che consolano, uomini di una bontà che consola. Questo significa anche che noi non dobbiamo essere come quelli per i quali la piccola consolazione della vita quotidiana è troppo poco e che dicono: no, questo sistema deve essere trasformato, abbiamo bisogno di un mondo nel quale la consolazione non sia più necessaria; ovvero, come ha detto Brecht esasperando il concetto: «Vogliamo un mondo nel quale non ci sia più bisogno di amore». Un mondo così, però, nel quale non c’è più bisogno di consolazione, sarebbe un mondo desolato; un mondo in cui l’amore non fosse più necessario, perché il sistema provvede già a tutto, sarebbe un mondo disumano. Dio vuole consolare attraverso di noi.

Ma invece, di continuo si solleva il sospetto che siano solo parole, promesse consolatorie. Chiediamoci allora: che cosa avviene quando un uomo consola un bambino a cui è morta la mamma? Non può annullare quella morte, non può cancellare il dolore da essa provocato, non può magicamente trasformare il mondo con ciò che esso ha di triste. Può però entrare nella solitudine generata dall’amore distrutto, che è l’autentico motivo del dolore, come uno che condivide il dolore e dà amore. Così, pur non potendo cancellare l’accaduto, non è un parolaio; se penetra, amando, nella solitudine dell’amore perduto, trasforma dall’interno, sana all’origine, sana l’essenziale. E non c’è alcun dubbio che, se egli veramente condivide il dolore e dà amore, allora le sue non saranno solo parole.

Dio non ha operato — come noi sogneremmo e come poi Karl Marx ha gridato a gran voce al mondo — in modo da far scomparire il dolore e cambiare il sistema, così che non ci sia più bisogno di consolazione. Questo significherebbe toglierci l’umanità. Ed è quello che nel segreto desideriamo. Sì, essere uomini ci è troppo pesante. Ma se ci venisse tolta la nostra umanità, smetteremmo di essere uomini e il mondo diverrebbe disumano. Dio non ha operato così. Ha scelto un modo più sapiente, più difficile, da un certo punto di vista, ma proprio per questo migliore, più divino. Egli non ci ha tolto la nostra umanità, ma la condivide con noi. Egli è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolazione. Questo è il modo divino della redenzione. Forse possiamo capire nel modo migliore che cosa significhi cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi.